A Sarajevo per aiutare i piccoli orfani
La frase si può leggere sotto la statua di un essere umano stilizzato che rompe le barriere di un cerchio, in mezzo a piazza della Liberazione a Sarajevo: “L’uomo multiculturale costruirà il mondo”.Questa è anche
La frase si può leggere sotto la statua di un essere umano stilizzato che rompe le barriere di un cerchio, in mezzo a piazza della Liberazione a Sarajevo: “L’uomo multiculturale costruirà il mondo”.
Questa è anche la convinzione che ha spinto l’Associazione Sviluppo e Promozione, organizzazione di volontariato che opera dal 1986 nella Zona 6 di Milano, a dar vita ad un progetto di scambio culturale tra queste due città. Il fine ultimo è appunto quello di educare le nuove generazioni all’urgente tema della convivenza. Convivere con culture diverse è infatti un’opportunità che l’uomo moderno non può più rifiutare di comprendere.
Era la fine dell’agosto del 2008 quando i primi tre pulmini si avviavano, all’alba, dalla Parrocchia dei Santi Nazzaro
e Celso, in via Zumbini, a Milano, verso Sarajevo. Oggi, da quel viaggio un po’ improvvisato è nato un progetto a base volontaria che in sei anni ha collaborato con due orfanatrofi e un’associazione di aiuto sul territorio, ha dato vita ad uno spazio educativo e di ricreazione per minorenni in una zona disagiata, ha portato in Italia decine di ragazzi e coinvolto centinaia di persone.
L’uomo da cui tutto è partito, però, è uno, don Giovanni Salatino, come una è la città che ormai da quel lontano 2008 porta nel cuore: Sarajevo. Oggi don Giovanni è coadiutore a San Barnaba, Gratosoglio, e nella stessa parrocchia vive Almedin. Diciott’anni, cresciuto nell’orfanatrofio di Bjelave (uno dei due, insieme ad SOS Village, nei quali viene svolta l’animazione estiva). Almedin è un ragazzo alto, scuro di capelli e di carnagione, che ha negli occhi la maturità di chi è cresciuto in fretta. È in Italia per diplomarsi e lavorare. Primo a provare quest’esperienza, non sarà probabilmente l’ultimo, in un progetto che mira a distaccarsi sempre più dall’assistenzialismo per costruire qualcosa che duri nel tempo.
Proprio in quest’ottica va inquadrata la creazione, nel 2011, del Centro Thalia nel quartiere di Grbavica, uno dei più difficili di Sarajevo. Negli spazi dell’associazione Sprofondo, attiva fin dai tempi della guerra negli anni ’90, un gruppo di educatori e universitari svolge durante tutto l’anno attività ludiche e laboratori artistici, sportivi e teatrali, con i ragazzi della zona. Il centro si mantiene grazie a offerte e attività di autofinanziamento in Italia e in Bosnia.
Alle attività di Thalia si affianca l’animazione estiva in due orfanatrofi della città e a Grbavica, così come l’invio di aiuti umanitari a Sprofondo, che provvede a ridistribuirli tra le famiglie in difficoltà, che non mancano in una città dove la disoccupazione sfiora il 50%, le prospettive sono poche e la tensione sociale altissima. Sì, perché molte ferite della guerra non si sono ancora rimarginate. Sarajevo è la città teatro del più lungo assedio della storia moderna: quasi quattro anni, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, durante il quale si contarono oltre 12mila morti e 50mila feriti, per la maggior parte civili. I segni di quello che è stato sono ancora ben visibili: la città è disseminata di cimiteri; lapidi bianche che spuntano ovunque: nei parchi, vicino alle strade più trafficate, affianco ai bar, nelle piazze, molte delle quali riportanti in terribile sequenza i segni di quei maledetti anni. Numerosi sono i palazzi trafitti dai proiettili. Calpestare una “rosa di Sarajevo” non è troppo difficile, soprattutto se si percorre quella che, durante la guerra, fu denominata dai giornalisti “the snipers’ road” la strada dei cecchini. Si tratta di ferite lasciate sull’asfalto dai colpi di mortaio, verniciate di resina rossa, là dove è morto qualcuno.
Ora Sarajevo è la città dove vivono una affianco all’altra le contraddizioni più forti e la voglia di voltare pagina. Qui si rimpiange Tito, perché almeno “con lui c’era lavoro”. A Sarajevo è nato Edin Dzeko, calciatore del Manchester City cresciuto sotto le bombe, capitano della nazionale bosniaca che ha conquistato per la prima volta quest’anno la qualificazione al mondiale; ma a Sarajevo i bambini che giocano a calcio fanno paura, tanta è la rabbia che mettono in ogni calcio al pallone. A Sarajevo, un tempo modello di tolleranza e convivenza pacifica tra religioni, oggi persino i messaggi sulla pericolosità del fumo sono stampati tre volte sui pacchetti di sigarette: una per i serbi ortodossi, una per i croati cattolici ed una per i bosgnacchi (musulmani). Perché la frase attribuita allo scrittore statunitense ed ebreo Elie Wiesel è vera: «A Sarajevo la notte arriva troppo presto e l’alba troppo tardi».
Ma Sarajevo è anche dei ragazzi che dicono di credere in un futuro migliore e che delle divisioni religiose “se ne fregano”. Sarajevo è anche di Sinisa, Neda e Mirela che studiano all’università ma intanto lavorano a Sprofondo, e ogni giorno girano gli appartamenti più squallidi della città per portare almeno un po’ di aiuti, conforto e calore umano. Sarajevo è la città della “Vijesnica” la Biblioteca nazionale di Bosnia Erzegovina, emblema della ricchezza culturale e dell’indole pacifica e multietnica della città, distrutta nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992, e tornata a splendere e a essere aperta al pubblico il 28 giugno di quest’anno, a quasi 22 anni dalla notte della distruzione. Sarajevo è la magia dei ragazzi degli orfanatrofi e del loro amore enorme, incondizionato. Sarajevo è lo splendore di minareti e campanili che si affiancano nell’arco di cento metri, ancora adesso. Sarajevo è la “Gerusalemme d’Europa” che dell’Europa vorrebbe far parte. Un processo di integrazione per molti aspetti difficile, ma che sarebbe oltre che necessario e plausibile, un’occasione unica per dimostrare che per Bruxelles la diversità è veramente un dono e non una colpa. Sarajevo è la città della speranza, dal quale tutto il mondo deve ripartire. Una vecchia canzone, di Kemal Monteno “Sarajevo, ljubavi moja” (“Sarajevo, amore mio”), intonata negli anni della guerra, finiva così: “La primavera e la gioventù torneranno a riempirti, mia unica Sarajevo, città mia”. Perché se è vero che l’alba tarda ad arrivare, arriverà. Sarajevo è anche la fontana della Baščaršija e la sua acqua: se la si beve non si può fare a meno di tornare, narra la leggenda. Ed è proprio così, infatti. A dispetto di tutto, a Sarajevo si torna sempre, anche se non si sa il perché. Una volta lo domandarono al generale Jovan Divjak, un uomo che decise di rimanere a Sarajevo in circostanze decisamente difficili: da serbo, decise di schierarsi a difesa della città, seppur con mezzi bellici decisamente inferiori e rendendosi nemici gran parte dei suoi connazionali. Da uno dei monti che dominano Sarajevo, e dai quali fu condotta l’offensiva serba sulla città, il generale si voltò ad osservare il luogo in cui vive da quasi cinquant’anni, interruppe per un attimo il fuoco di fila di battute macabre e aneddoti di guerra e, dopo aver pensato per una trentina di secondi dietro gli occhiali da sole, rispose: «Questa è la mia città. Qui c’è tutto ciò che amo. Come potevo andarmene?».
Francesco Negri e Riccardo Spinelli
Bosnia tra passato, presente e futuro
La guerra in Bosnia-Erzegovina, combattuta tra il 1992 e il 1995, si inserisce nel più ampio contesto dei conflitti che colpirono la regione balcanica e che portarono alla suddivisione in più Stati della Jugoslavia Gli scontri in Bosnia, scoppiati in seguito alla proclamazione d’indipendenza del 3 marzo 1992 della Bosnia Erzegovina dalla Serbia furono tra i più sanguinosi della guerra, poiché alimentati da una contrapposizione etnica, che vide su opposti fronti bosniaci, croati e serbi, su cui si inserivano integralismi religiosi mussulmani, cattolici e ortodossi. Sullo sfondo, le potenze mondiali e medio orientali che facevano rifermento ai medesimi presupposti ideologici-religiosi, per le quali la dissoluzione della Jugoslava di Tito presentava un problema (o un’opportunità).
Tutte le fazioni si resero tristemente protagoniste di pulizie etniche nei confronti delle popolazioni avverse e la presenza delle truppe Onu, i cosiddetti caschi blu, purtroppo non impedì episodi drammatici. Il più efferato dei quali si compì a Srebenica, l’11 luglio del 1995.
In quell’occasione i serbo-bosniaci guidati da Ratko Mladic e appoggiati dal gruppo paramilitare di Arkan operarono il più efferato massacro avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Le vittime furuno bosniaci-musulmani che si erano rifugiati nella zona di Srebrenica, che da 1993 era sotto la tutela dell’Onu. Il numero dei morti non è ancora stato del tutto accertato, si presume possano essere più di 8mila, ma fino al marzo 2010 grazie all’utilizzo del Dna si era arrivati a contarne 6.414.
Gli accordi di pace di Dayton, firmati nel novembre ’95, crearono nel neonato Stato di Bosnia-Erzegovina tre entità distinte, che ora governano a rotazione, attraverso le elezioni di un presidente che avviene ogni otto mesi, con candidati provenienti dalle varie etnie presenti (croata, musulmana e serba).
Una organizzazione dello Stato che di fatto rende ingovernabile il Paese, che versa in condizioni economiche disastrose, aspira all’ingresso nell’Ue e ad una situazione economica migliore, lasciandosi definitivamente alle spalle i fantasmi del passato.
Andrea De Feudis