Accadde oggi, 8 maggio, dai Nomadi alla resa dei nazisti, dal papà di Bruno alla sfida del coronavirus
Queste parole sono scritte da chi non ha visto più il sole per amore di lei io le ho trovate in un campo di grano sopra una pietra c'era scritto così ho difeso ho difeso il mio amore il mio
Queste parole sono scritte da chi
non ha visto più il sole per amore di lei
io le ho trovate in un campo di grano
sopra una pietra c’era scritto così
ho difeso ho difeso
il mio amore il mio amore
c’era una data
l’8 di maggio…
Era più di mezzo secolo fa. “Da Nights in white satin”, un pezzo in anticipo sui tempi dei Moody blues, i Nomadi (ma prima di loro i Profeti) avevano cavato questa canzone. Erano gli anni in cui le band si chiamavano ancora complessi.
I Nomadi erano cinque ragazzi della provincia emiliana. Oggi sono fra i pochi sopravvissuti di quella lontana era geologica e impavidamente si esibiscono sui palchi di tutt’Italia. Ma allora li guidava la voce magica di Augusto, uno che se lo avessero avuto gli inglesi non si sarebbero inventati Mick Jagger.
I Nomadi di Augusto erano quelli di “Come potete giudicar”, “Dio è morto”, “Noi non ci saremo” fino a “Io vagabondo chi son io vagabondo che non sono altro”. Accompagnavano il nostro affacciarci al mondo insieme all’Equipe 84 e ai Rokes, risposta autarchica a Beatles e Rolling Stones.
Ma quella data presa a caso per una canzonetta era una delle più importanti della nostra storia. L’8 maggio 1945 a Berlino, i tedeschi per mano del generale Jodl, ratificavano quello che già avevano firmato il giorno prima a Reims, la resa incondizionata della Germania nazista agli alleati.
Scegliere fra il 7 nella città che aveva incoronato tanti re di Francia o l’8 nella lacerata capitale del Reich non è così rilevante. Finiva la guerra che per sei anni aveva insanguinato il mondo, distruggendone buona parte. In realtà resisteva testardo il Giappone e avremmo dovuto ancora vivere l’orrore di Hiroshima e Nagasaki per piegare l’impero d’oriente e costringere Hiro Ito a piegarsi da divinità a uomo lasciando solo qualche folle e patetico eroe a vagare nella jungla per sfuggire a un nemico che ormai non c’era più.
Era un prezzo enorme quella coda dei giorni d’agosto, le centinaia di migliaia di morti nel giro di pochi attimi. Lo splendore agghiacciante della bomba ci diceva tutto della guerra, ci mostrava come la vittima potesse trasformarsi in carnefice, ci svelava una verità che accettavamo a fatica. Che nessuno di noi poteva dirsi innocente.
Sono passati settantacinque anni, il tempo di tre generazioni. Nonni, padri e figli che la guerra non l’hanno vista mai, almeno da queste parti. Tre generazioni che si ritenevano immuni da altre catastrofi. E raramente ci siamo fermati a considerare di essere loro, cioè noi, l’anomalia.
Mio padre, per dire, è nato durante la prima guerra mondiale e ha vissuto in prima persona la seconda, acquattato tra le montagne d’Albania a rincorrere un sogno malato. In mezzo, per non farsi mancare nulla, un ventennio di fascismo.
Ora tocca a noi questa parodia di guerra. Altra cosa, anche nelle dimensioni. Ma terribile per noi che ci siamo sentiti per molto tempo immortali. Dimenticandoci troppo spesso il nostro mezzo milione di morti e le sei milioni di vittime immolate nei campi tedeschi e polacchi che qualcuno vuol derubricare a noiosi effetti collaterali.
Ora tocca a noi, improvvisamente nudi e atterriti dall’idea di un nemico perfido e invincibile. Come i nostri nonni e i nostri padri ci sveglieremo da questo presente sospeso. Di fronte a noi una domanda. Come saremo? Travolti dall’insopportabile melassa che ci vuole solidali e benevoli verso i più sfortunati, saremo davvero migliori? O si avvererà l’atroce previsione che ci vuole regredire al vecchio homo homini lupus in una darwiniana lotta per la sopravvivenza? Difficile rispondere nell’eterno dilemma fra ottimismo della speranza e pessimismo della ragione.
Dovremmo essere migliori, ne abbiamo il diritto e il dovere perché migliorare se stessi e gli altri dovrebbe essere il fine ultimo dell’uomo. Spesso quest’idea si è accompagnata solo a parametri economici. Dimenticando che migliore non è altro che il comparativo della parola buono. Forse, e lo dico consapevole di sfidare l’ilarità di molti, l’unica possibilità che abbiamo è di provare semplicemente ad essere buoni.