Alzheimer: malattia dell’assenza
Spesso sono altrove e lo saranno sempre più frequentemente, finché li avremo tra noi solo di tanto in tanto. Sono anziani, certo, ma non anzianissimi, e sono sempre più numerosi oltre che, purtroppo, incurabili. Parliamo
Spesso sono altrove e lo saranno sempre più frequentemente, finché li avremo tra noi solo di tanto in tanto. Sono anziani, certo, ma non anzianissimi, e sono sempre più numerosi oltre che, purtroppo, incurabili. Parliamo dei malati di Alzheimer.
In quei volti dall’espressione come in attesa di qualcosa, di qualcuno, ciascuno può riconoscere un “suo” vecchio, padre, madre, suocero, nonno. In loro ritrova la stessa irraggiungibile assenza. Si muovono come in un labirinto con la certezza che non ne usciranno mai. Perlopiù sembrano assorti, chiusi nei loro impenetrabili pensieri, lievemente distratti, da lasciare tranquilli finché, per un breve o lungo momento torneranno da noi. Spesso un padre o una madre, davanti a un figlio attonito, dicono: “Mi sembra di averti già visto da qualche parte, ma non riesco proprio a ricordarmi dove”.
Implacabile e vorace, l’Alzheimer si è mangiato un poco alla volta il cervello di questi ammalati, ne ha ridotto le capacità rendendolo simile a un macchinario inizialmente sofisticato e complesso dal quale sono state via via eliminate tutte le funzioni accessorie. E’ rimasto il semplice meccanismo di base, capace di poche sensazioni essenziali come il piacere, il dolore, la paura, l’aggressività. Sparite, spesso, la generosità, la vergogna, il pudore, i freni inibitori. Soprattutto cambiano i rapporti fra marito e moglie – Come se nell’ultima parte della vita, andassero via i pudori, e finalmente si possono dire le cose mai dette prima.
Il corpo e i sentimenti si mostrano improvvisamente in una nudità indifesa, la passione si fa com-passione, il patire insieme spesso diventa un nuovo, sconvolgente, modo di amarsi. L’amore terminale. La cognizione del dolore altrui ne è la forma estrema, fatta di solidarietà, dedizione, ostinazione nel voler difendere fino all’ultimo respiro la dignità dell’altro. Uno dei due ridiventa bambino, e l’altro si fa padre o madre. Invecchiare insieme, anche nella malattia, è comunque un dono immenso. Un privilegio e un impegno.
Invecchiare è una forma d’arte, sosteneva James Hillman, psicanalista americano. Un’arte che, se si ha la fortuna di essere in coppia, bisogna coltivare insieme. “Perché il carattere si rivela solo alla fine della vita, come un albero diventa fascinoso solo quando è compiuto, con i suoi bozzi, i suoi rami fiaccati dalle tempeste”. Nell’ultima sua fase l’amore richiede questo: il far resistenza della coppia contro le ingiurie del tempo e della malattia, il saper guardarsi ancora con occhi amorosi, il diventare lo specchio buono dell’altro. Soprattutto quando, sopraggiunta la malattia, qualche sprazzo di vita ogni tanto riaffiora, brevi intervalli per scambiarsi ancora storie e ricordi. Prima che la luce si spenga del tutto. Prima che si vada altrove. È bello pensare che forse, in quell’altrove, si potranno ricostruire speranze, ricordi e forse, chissà, si potrà riaccendere un’altra luce.
Anna Muzzana
(Aprile 2016)