Analisi dopo il 25 maggio. Le ragioni di una vittoria

Una delle più praticate letture della straripante vittoria del Partito democratico è riassunta dallo slogan: è rinata la Democrazia Cristiana. Una interpretazione che trova singolarmente concordi avversari da destra e da sinistra di Matteo Renzi.

Una delle più praticate letture della straripante vittoria del Partito democratico è riassunta dallo slogan: è rinata la Democrazia Cristiana. Una interpretazione che trova singolarmente concordi avversari da destra e da sinistra di Matteo Renzi. I primi, nel (presunto) profilo neocentrista e a-ideologico del primo ministro fiorentino trovano ampi motivi se non di consolazione almeno di attenuazione della portata della propria sconfitta; per i secondi l’affermazione plebiscitaria è dovuta alla sepoltura dei tratti più caratteristici della sinistra tradizionale.

Partito interclassista
Una democristiana di lungo corso come l’ex ministro Maria Pia Garavaglia ha sintetizzata la propria soddisfazione con la battuta: “È rinato il partito interclassista”. E l’irrequieto Marco Follini, che era uscito neanche un anno fa dal Pd, perché aveva un “profilo socialista”, sembra essersi ricreduto se è vero che ha detto: “È la vittoria della Democrazia Cristiana”. Certamente per definire la fisionomia del partito democratico occorre minor sbrigatività, ma è vero che oggi più che mai per comprendere la linea di condotta di questo partito non si può prescindere dalla personalità del suo leader. C’è nel ripescare dall’archivio politico italiano la nozione e il marchio della Democrazia Cristiana il non mai dismesso vezzo di leggere la storia come un ciclico ripetersi di eventi, con una semplicistica rielaborazione della teoria vichiana dei ricorsi. Ma c’è almeno un dato che contraddice l’equiparazione fra il Pd renziano e la Democrazia Cristiana. La vecchia Dc si è sempre sottratta alla logica dell’uomo solo al comando (non avvenne neppure con De Gasperi). Ha avuto grandi personalità al suo interno, anche vivacemente conflittuali fra di loro, ma ha sempre rifiutato il dominus assoluto. Era la sua forza o la sua debolezza? Bene o male ha governato l’Italia per mezzo secolo. Ora siamo nell’era del leaderismo, ogni confronto con il passato risulta ozioso.

Tattica o valori?
Non c’è dubbio che rispetto alla classica distinzione che Max Weber fece fra etica della convinzione ed etica della responsabilità, Renzi è un politico che obbedisce senza remore alla seconda, quella cioè che privilegia il conseguimento dei risultati alla coerenza ideale, che è invece il contrassegno della prima. E in questo Renzi si colloca nel solco della storia del Pci, che nelle fasi più convulse sapeva fare scelte pragmatiche anche a scapito dei principi. Con una differenza di fondo: nel vecchio Pci la convivenza fra impianto ideologico e flessibilità tattica era faticosa, ma costante. Di Renzi la maggior parte di noi, mentre ammira la disinvoltura e l’inventiva quotidiana, deve ancora comprendere la compattezza e la natura del suo sistema valoriale. Va da sé che più si annacquano i tratti ideologici di un partito, più lo si rende tributario della personalità che lo guida.  Il senso dovrebbe essere chiaro: è la forza del leaderismo.

Primato della comunicazione
Se sul fronte, diciamo ideologico, si sprecano i giudizi di neodemocristianità, per quanto riguarda la figura di Renzi, da tempo ricorre l’accostamento (per taluni la filiazione) alla figura di Berlusconi. Questo avviene ogni volta che in Italia – dopo la cosiddetta morte delle ideologie – si affaccia sulla scena politica una forte personalità. Continua la stagione, secondo me non proprio fausta, del leaderismo, un modo di intendere la politica che semplifica la democrazia fino quasi a renderla apparente. C’è innegabilmente un fattore decisivo che consacra e apparenta i successi di Berlusconi prima e di Renzi poi. Questo fattore è la comunicazione, che trasferisce l’azione politica nella recita quotidiana: di questa recita lo strumento di gran lunga più efficace (per la sua diffusione e in molti casi per la sua esclusività) resta la televisione. Non mi sorprende che dopo tanti anni in cui si era voluto negare alla televisione un ruolo determinante (non si voleva ammettere che fosse la chiave del successo di Berlusconi), ora questo ruolo venga riconosciuto e amplificato.

Progettazione e manipolazione
Una delle più lucide menti critiche americane, Noam Chomsky, richiama il valore profetico (rispetto al successivo affermarsi dei più moderni mass media) delle analisi di Edward Bernays negli anni Quaranta sulla “progettazione del consenso”, definito la “essenza del processo democratico”, attraverso la “manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini organizzate”: dobbiamo cercare di espungere da quel sostantivo “manipolazione” ogni valenza negativa e accoglierlo come un dato della realtà, laicamente neutro. Quando si dispone di strumenti di progettazione del consenso come la televisione, è logico trarne il massimo frutto. E non tutti sono in grado di farlo. Il secondo tempo della democrazia dovrebbe poi essere la verifica dell’uso che si è fatto di questa moneta. E qui il discorso è apertissimo. Ma in questo senso, più che mai ingenua al limite dell’infantilismo appare la convinzione che il web possa surrogare o addirittura sostituire la televisione nella raccolta e nell’utilizzo del consenso e nella costruzione di un nuovo rapporto partecipativo. Lo scarto di efficacia e di capillarità fra i due mezzi resta abissale. Per il futuro si vedrà. La prova dei fatti Diamo per scontato – perché di ciò hanno già scritto e detto praticamente tutti – che Renzi abbia convinto molti nuovi elettori (senza perdere il favore dell’elettorato tradizionale) grazie ad alcuni elementari ma fondamentali fattori che sono: la giovane età, l’estrema determinazione, la rapidità di decisione e di movimento, il senso di energia che trasmette al suo operare, il lucido sbarazzamento (rottamazione) di tutto ciò che (non solo in termini anagrafici) rappresentava un legame col recente e meno recente trascorso del partito di appartenenza. Il tutto modellato con una efficacia oratoria e un modo di porsi persuasivi fino alla seduzione (e qui sta il peso determinante dei canali che gli hanno consentito questa comunicazione). Tutto ciò è evidente e giustifica l’ampiezza del suo successo. Taluni arrivano ad affermare che a questo ormai si riduce l’essenza della politica, come se i risultati fossero secondari. Ma credo sia una vera esagerazione. Nessuno, prima o poi, sfugge alla prova dei fatti.

La forza dell’emergenza economica
I conti con la storia si faranno dopo. Ma i conti con la politica si fanno adesso. E in politica è importante vincere, se è vero che vincere vuol dire realizzare i propri programmi, tradurre in atti le proprie idee. In questo senso non è affatto ozioso porsi il problema se “finalmente con Renzi la sinistra vince” (che rappresenta l’ossessivo mantra dei renziani) o se Renzi abbia vinto semplicemente perché ha convertito in una vasta area neocentrista e moderata il partito democratico, di cui è diventato leader indiscusso da pochi mesi. E la conquista ha trovato impulso decisivo sia dalla cronica difficoltà del Pd di conseguire un successo chiaro, sia dalla drammatica emergenza economica che imponeva a tutte le forze politiche uno sforzo innovativo senza precedenti. Renzi ha colto il momento giusto: nessun leader, nessuna forza politica ha avuto la stessa prontezza e determinazione.

Tutti craxiani, tutti renziani
Ma che avviene nel Partito democratico dopo lo sconvolgente voto del 25 maggio? Avviene che il vecchio dibattito su cosa è destra e su cosa è sinistra si traduce nel quesito “ma Renzi è di sinistra? con la sua vittoria ha veramente vinto la sinistra?”, quesito che sottintende il dubbio che a prevalere sia stata una colossale operazione trasformistica che in nome del potere smacchia giaguari e ogni altro genere di pelliccia. E allora, dopo aver parlato del principio di responsabilità, giova qui parlare del principio di realtà, che per molti è l’abc della politica: Renzi ha vinto e dunque aveva e ha ragione. Renzi ha portato al successo un partito che negli ultimi anni stentava a cogliere successi. Dunque, nessuna meraviglia per l’assimilazione “realistica” all’area renziana di gran parte del vecchio establishment: un processo che ricorda la craxizzazione del Psi subito dopo la presa del potere da parte di Bettino, fino a poche settimane prima duramente contrastato. Si chiama principio di realtà. Che consente a chi lo vive, lo scambio fra la faticosa conversione oggi con il recupero dei valori propri rinviato all’indomani.

Piero Pantucci

 

Laureata in Scienze dei Beni Culturali, blogger appassionata di cinema e teatro, talentuosa grafica e webmaster, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e sfide, forte della sua estrazione umanista veste con grazia e competenza le testate digitali e su carta di Milanosud.

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