Buon compleanno, Clint!
Dei mille personaggi che hanno fatto la storia di Hollywood la figura di Clint Eastwood è quella che mi è più vicina. Forse perché Clint nasce italiano. E attraversa con noi più di mezzo secolo
Dei mille personaggi che hanno fatto la storia di Hollywood la figura di Clint Eastwood è quella che mi è più vicina. Forse perché Clint nasce italiano. E attraversa con noi più di mezzo secolo di cinema.
All’inizio era un solo un corpo lungo addobbato di poncho, cappello e mezzo sigaro. Era la creatura di Sergio Leone che insieme a un piccolo gruppo di folli (Corbucci, Sollima, Tessari e pochi altri) si era inventato il western all’italiana, in un paese che il West nemmeno ce l’aveva, diviso piuttosto in un’eterna diatriba fra Nord e Sud.
Il nostro West nasceva fra le praterie del frusinate e le lande deserte dell’Andalusia, a seconda del budget a disposizione. Là si muoveva Clint. Parlava poco, frasi taglienti che avevano la voce profonda di Enrico Maria Salerno. In compenso sparava molto. Tutto Per un pugno di dollari.
Al trionfo del primo seguivano altri due capitoli della trilogia che presto avrebbe spopolato in Italia, in Europa e infine anche in America. Il successo coglieva un incredulo Eastwood, rientrato da attore disoccupato in patria. Primo e unico caso di divo hollywoodiano sconosciuto agli Studios e sbocciato a Cinecittà. Da allora sono passati più di cinquant’anni.
L’ultimo giorno di maggio Clint Eastwood, ne ha compiuti novanta. Cambiando mille volte pelle. Già in California ripartiva dal western, per togliersi presto sigaro e poncho e diventare l’ispettore Callahan. Da noi curiosamente Callaghan con l’aggiunta di una g forse perché quell’acca aspirata veniva bene solo ai fiorentini.
Lasciava la vecchia colt per impugnare la magnum, che in America, si sa, un’arma non la si nega a nessuno. Stessa grinta, poche parole, tanta azione. Forse troppa. Nella vecchia Europa i metodi sbrigativi dell’ispettore che andava su e giù per le strade di San Francisco odoravano di rigurgiti fascisti. In realtà Callahan era personaggio più complesso dei tanti giustizieri della notte, peraltro molto attivi anche di giorno.
Intanto Eastwood si era ormai installato sul podio del Gotha hollywoodiano, con tanto di compenso stratosferico. Sfatata l’immagine di attore mediocre (celebre la frase di Leone, Eastwood ha due espressioni, con il cappello e senza), era pronto al grande salto. Non solo davanti ma soprattutto dietro la macchina da presa.
Anche qui la risposta non era univoca. Grande successo di pubblico e critica freddina. Ma continuava a lavorare di cesello Clint, ben sapendo di essere più artigiano che artista. E il tempo gli dava ragione. Partiva dalla vecchia e scettica Europa, precisamente dalla Francia, la riabilitazione completa. Così a sessant’anni, alla sua seconda o terza vita, arrivavano i trionfi di Cannes e l’Oscar. Rivelando una duttilità sorprendente Eastwood rivedeva i suoi panni da cowboy, con una precisione storica che a Leone non interessava, per poi percorrere le strade del suo paese inventandosi volta a volta astronauta, falsario, perfino romantico innamorato a duettare con Meryl Streep sotto i ponti di Madison County.
Arrivava il nuovo millennio e ce n’era ormai abbastanza per aggiustare il giudizio su Eastwood. Ma il meglio doveva ancora venire. Ben oltre i settant’anni, quando i maestri di Hollywood tendono a tirare i remi in barca avviandosi a un declino non sempre decoroso, Clint azzeccava il trittico di capolavori, Mystic River, Million dollar baby per finire con l’ideale testamento di Gran Torino. Poteva chiudere lì, dopo aver mostrato al mondo che passione e lavoro possono pareggiare il genio, a volte superarlo.
Aveva ormai ottant’anni. Ora il maestro di Hollywood, l’erede dei grandi che avevano fatto la storia del cinema, era lui, quello che a trent’anni si portava dietro sogni e speranze che sembravano troppo grandi. Ma Clint non sapeva né voleva fermarsi. Con la sua voglia di scandagliare l’America, con la sua scontrosità a volte fin troppo urticante, con le sue posizioni non sempre condivisibili ma oneste. E andava avanti, un film all’anno, non tutti capolavori, a volte qualche inciampo ma sempre c’era la possibilità di rifarsi.
Intervistato per i suoi novant’anni, Clint se l’è presa col maledetto virus che gli ha scombinato i piani. Non tanto per la quarantena che dal suo ranch californiano con vista sul Pacifico non deve essere stata troppo amara, ma per il noioso rinvio del prossimo ciak. Del resto, dice con un sorriso, si ritiene destinato a morire su un set cinematografico. Come Charlie Chaplin che in Luci della ribalta moriva in scena, salutando il suo pubblico su di un tamburo sfondato a strappare l’ultima risata. Anche a lui piacerebbe finire così. Forse, ma c’è ancora tempo. Almeno la compagnia di una mezza dozzina di film.
Buon compleanno, Clint!
Antonio 6 Giugno 2020
Sempre grande bruno contardi e il piacere di sentirlo parlare mi ricorda il tempo passato anche quando tra amici a tarda notte a uno a uno crollavano per il sonno,io a fatica resistevo ma lui imperterrito continuava a parlare.