Centrosinistra, i motivi del tracollo e i pochi dati confortanti che arrivano dalle urne
L’esito delle elezioni lo si sapeva ormai da mesi. Probabilmente elettori e candidati del Centrosinistra non immaginavano un tracollo di queste dimensioni, ma tutti concordavano che “la competizione era molto difficile”. Un eufemismo che più
L’esito delle elezioni lo si sapeva ormai da mesi. Probabilmente elettori e candidati del Centrosinistra non immaginavano un tracollo di queste dimensioni, ma tutti concordavano che “la competizione era molto difficile”. Un eufemismo che più che animare i sostenitori serviva a esorcizzare la sconfitta, che è apparsa chiara sin dai primi sondaggi. Perlomeno è stata chiara agli elettori se, come ci dicono le prime analisi dei flussi elettorali, l’altissima percentuale di non votanti è da ricondurre nella maggior parte agli elettori che di solito guardano a sinistra.
Ma i presupposti della sconfitta erano ben chiari già molto tempo prima dei sondaggi. L’elenco è molto lungo. Le cause sono motivo di dibattito (speriamo non solo sui social), tutte opinabili e “figlie del senno di poi” qualcuno potrebbe obiettare. Tra queste almeno un paio però sembrano inoppugnabili.
La prima è veramente banale, non c’era bisogno di essere politologi per capirlo da subito ed è riassumibile in una frase: in un sistema elettorale maggioritario, a turno unico, vince chi aggrega più liste e partiti. Il “campo largo” evocato e non realizzato da Letta alle Politiche dell’anno scorso era probabilmente l’unico modo per provare a stare in partita. Ma nonostante l’esito delle elezioni di settembre, così non è stato. Il motivo è riconducibile all’egoismo delle segreterie romane dei partiti di opposizione, soprattutto del Terzo polo e M5S, molto più interessate a coltivare il proprio consenso in ottica nazionale, cresciuto nella tornata elettorale scorsa, che a provare a contendere la Lombardia. Se a questo si aggiunge l’infinito congresso del Pd, lo stallo tra le correnti, un partito acefalo e senza iniziativa politica, una segreteria regionale incapace di prendere l’iniziativa, la frittata è fatta.
L’altro motivo, legato a doppio filo alle considerazioni già fatte, è che non si può presentare la pur degnissima candidatura di Pierfrancesco Majorino a due mesi e mezzo dalle elezioni e chiudere la coalizione con il Movimento dopo quindici giorni, con le vacanze natalizie alle porte. A maggior ragione se il candidato, che è conosciuto soprattutto nel milanese, deve presentare la sua proposta politico sociale in tutta la regione. A queste condizioni, sperare in una inversione del trend nazionale in Lombardia, era illusorio, nonostante Fontana fosse un candidato in difficoltà (pur vincendo ha raccolto oltre 1 milione di voti in meno rispetto a quando si candidò nel 2018) e la coalizione, vista la candidatura di Moratti, avesse perso un pezzo.
Più difficile che analizzare i motivi della sconfitta, capire come il Centrosinistra possa ricostruire una proposta politica. In attesa del congresso Pd – le primarie saranno il 26 febbraio – le uniche considerazioni oggettive che si possono fare scaturiscono dal risultato elettorale. Il Centrosinistra vince nelle grandi città di Milano, Bergamo e Brescia, dove governano coalizione “larghe”, poco ideologiche e molto pragmatiche; se avessero votato solo gli under 35 avrebbe vinto Majorino; gli elettori lombardi, per quanto pochi, hanno punito nelle urne l‘incapacità di visione politica di Terzo polo, che ha preso 200mila voti in meno rispetto alle Politiche di 5 mesi fa, e dei Cinque stelle, che sono letteralmente crollati: anche loro quindi dovranno fare i conti con le coalizioni; infine gli astenuti sono stati oltre il 58% degli aventi diritto al voto, ovvero circa 4 milioni di lombardi.
Partendo da questi dati, se prova a fare politica per i cittadini e non per sé, il Centrosinistra ha spazio e leve elettorali per risalire. Nel 2028, però. Intanto ci teniamo 5 anni di Fontana.