C’era una volta Hollywood, i nuovi divi e con “Via col vento” arriva il colore
I nuovi divi, certo. E i grandi maestri che firmano le opere. Ma i veri protagonisti del miracolo hollywoodiano sono le grandi case di produzione, le majors. Sono loro a rivoluzionare il sistema, a rivitalizzarlo
I nuovi divi, certo. E i grandi maestri che firmano le opere. Ma i veri protagonisti del miracolo hollywoodiano sono le grandi case di produzione, le majors. Sono loro a rivoluzionare il sistema, a rivitalizzarlo e a strutturarlo fino a farne una delle più floride industrie del mondo. Attraverso regole precise anche se non sempre limpide.
Sono le Big Five che tutti abbiamo conosciuto, 20th Century Fox, Paramount, Warner Brothers, MGM, RKO. Sono loro a potenziare enormemente gli studios, a fare di Hollywood la seconda capitale della California. Qui le case producono i film per poi provvedere a distribuirli nelle sale di loro proprietà. Una catena ferrea, produzione, distribuzione, esercizio. Le big five dominano (e monopolizzano) il mercato.
Dietro a loro le tre minors: United Artists, Universal, Columbia. Il sistema funzionerà a meraviglia per trent’anni fino ai primi sessanta, esportando l’immagine di un’America di nuovo vincente. Un’America che anche attraverso il cinema supera la grande crisi dei primi anni trenta per mostrarsi al mondo a fine decennio come prima potenza del pianeta.
È l’America di Roosvelt, l’America del new deal che si lascia alle spalle la grande depressione, l’America che ritrova il benessere mentre l’Europa si prepara a una nuova catastrofe bellica. Dietro lo schermo, dietro la magnifica finzione del cinema ci sono i produttori, geniali e a volte senza scrupoli, immigrati di seconda o terza generazione che hanno scommesso su quella traballante invenzione di fine secolo e hanno vinto.
Sullo schermo tornano i volti conosciuti di chi ha saputo traghettarsi dal muto al sonoro, dive dal fascino esotico come Greta Garbo e Marlene Dietrich, ma anche le nuove star come Katherine Hepburn o Bette Davis. Più brusco il ricambio fra gli attori di sesso maschile. Non è più il tempo dei Fairbanks e dei Rodolfo Valentino. Arriveranno presto Clark Gable, the king, l’eroe americano Gary Cooper, l’affascinante Cary Grant. Nel West cavalcano John Wayne e James Stewart. Nelle strade buie di San Francisco si intravede l’ombra di Humprey Bogart.
Ma gli attori e i registi e i magnifici sceneggiatori che spesso sono scrittori da Nobel come Scott Fizgerald o Faulkner, narratori del talento di Ring Lardner o Raymond Chandler, sono tutti impiegati al servizio delle grandi majors.
Impiegati milionari, certo, ma legati da rigidi contratti pluriennali che li obbligano a un certo numero di film all’anno. Ce n’è per tutti. Le case producono grandi film ad alto costo, uniti a lavori veloci, girati in economia (ma fra loro si annidano dei piccoli tesori) e il tutto viene venduto in pacchetti comuni in modo che non vi sia possibilità di perdite.
Tra le case non mancano i colpi bassi ma generalmente si spartiscono in relativa buona armonia la grande torta. Ogni casa si specializza in generi diversi, chi punta sul Western, chi sul dramma sentimentale, chi gioca tutto sul musical della coppia Ginger Rogers-Fred Astaire, chi si inventa il Noir.
A volte si scambiano per un paio di film gli attori più rappresentativi come in un gigantesco calciomercato. Hollywod si autocelebra creando la festa degli Oscar, la magica statuetta dorata che tutti abbiamo imparato a conoscere. L’America entra trionfalmente in ogni casa del pianeta malgrado l’ostracismo autarchico e un po’ ridicolo di qualche paese, tra cui il nostro che gli oppone il suo cinema dei Telefoni bianchi.
Intanto a Hollywood hanno inventato il colore. Nel 1939 David O. Selznick, un produttore indipendente folle e geniale, sfida le majors si gioca l’ultimo centesimo su una produzione gigantesca È “Via col vento”, quasi quattro ore di spettacolo sfavillante, tra l’incendio di Atlanta e i tribolati amori di Rossella O’Hara. Diventerà il più grande successo cinematografico di tutti i tempi. Ma da noi arriverà solo nel 1951. Dodici anni dopo per tenere il cartellone per più di un anno. Meglio tardi che mai. A tutti rimane la memoria di quell’immagine finale, il tramonto infuocato nel cielo della Georgia e le parole immortali di Rossella, le stesse che a ognuno di noi è capitato di dire almeno una volta nella vita, fra speranza e fatalismo «Domani è un altro giorno».