Ciao Mariolino, piede sinistro di Dio, poeta della foglia morta
Abbiamo festeggiato da poco il cinquantesimo anniversario della Partida del siglo. Stadio Azteca di Città del Messico 1970, Italia – Germania 4-3. Numeri che sono diventati un mantra, immagine di un momento perfetto. Nessuno più
Abbiamo festeggiato da poco il cinquantesimo anniversario della Partida del siglo. Stadio Azteca di Città del Messico 1970, Italia – Germania 4-3. Numeri che sono diventati un mantra, immagine di un momento perfetto. Nessuno più ricorda i novanta minuti soporiferi della partita, ravvivati solo dal fulmineo gol di Boninsegna e dal pareggio di Schnellinger all’ultimo disperato assalto tedesco.
Ma tutti hanno in mente e nel cuore quella mezzora supplementare, vissuta qui da noi nel cuore della notte, tremolanti figure in bianco e nero che si muovevano in spazi lontani, le ultime corse sfiatate dei calciatori nei duemila metri d’altezza di una metropoli già schiava dello smog, gli svarioni difensivi dei riflessi annebbiati ma su tutto quei gol rocamboleschi, la cui successione sembrava infinita e che invece finiva col tocco di Rivera e il mucchio di corpi sfiniti che si abbracciavano riversi sull’erba di quello stadio di Messico e nuvole.
Una emozione pari e forse superiore i tifosi dell’Inter l’avevano vissuta cinque anni prima. I più fortunati allo stadio, 70.000 stipati dentro il vecchio San Siro che ancora non si chiamava Meazza e non rischiava d’essere abbattuto in nome di un improbabile progresso. Gli altri davanti alla televisione. Era una sera di maggio e l’Inter affrontava il Liverpool in un’impresa quasi disperata, ribaltare l’1-3 rimediato all’andata nella città dei Beatles per acciuffare la finale di Coppa dei campioni, un anno dopo il trionfo di Vienna.
Quella partita indimenticabile sta tutta in due magici minuti. All’ottavo di gioco l’arbitrio ordina una punizione dal limite dell’area in favore dell’Inter. Si accinge a batterla lo specialista Mario Corso. Una rincorsa breve, il tocco di sinistro, la palla che supera la barriera in un volo lungo per abbassarsi d’improvviso beffarda e infilarsi in rete. È l’inizio della rimonta possibile. Passa un solo minuto e Joaquim Peirò ruba la palla a un portiere giocherellone e sigla il 2 a 0. Da quel momento il tifo assordante dei 70.000 accompagna la squadra fino al gol liberatorio di Facchetti che consegna alla squadra il passaporto per la seconda finale e la seconda coppa. La notte finisce sulle note di Louis Armstrong, forse è vero che i santi marciano in Paradiso. Forse tra loro c’è un posto per i tre eroi di una sera di maggio lontana.
Giacinto Facchetti, il gigante buono mai dimenticato, l’uomo che aveva inventato un nuovo modo di giocare, trasformandosi talvolta da terzino in centravanti aggiunto, ci ha lasciato quattordici anni fa. La notizia della morte di Peirò ci ha sorpreso chiusi in casa in questo terribile mese di marzo. Pochi giorni fa se né andato Mario Corso.
Cosa dire di Corso, per sempre Mariolino, dopo che di lui hanno scritto Gianni Brera e Edmondo Berselli, dopo che in questi ultimi giorni lo hanno onorato le migliori penne dello sport e dire sport è ancora una volta riduttivo. Perché scrivere di Corso è facile e difficile insieme. Il suo modo di intendere e vivere il calcio sta in quell’angolo stretto dove il vecchio gioco del pallone si congiunge alla poesia. In quegli anni sessanta straordinari e lontani dove pareva che al potere potesse e dovesse giungere l’immaginazione, l’Inter ricca di campioni dominava in Italia, in Europa e nel mondo. Ognuno poteva avere il suo preferito, fosse Luis Suarez dai cento polmoni e dal lancio millimetrico, o il furetto Jair, uno sprinter nero in un mondo ancora tutto bianco, le volate sulla fascia a innescare i guizzi rapidi ed estrosi di Mazzola, il figlio d’arte che faceva rivivere la leggenda del padre scomparso nel rogo di Superga. Ma l’immaginazione al potere era Mariolino Corso.
Era arrivato a Milano dal veronese quando ancora certe distanze davano l’idea di un viaggio. Aveva sedici anni, l’aria spaurita di chi arriva dalla campagna a nascondere un’intelligenza bertoldesca che gli avrebbe permesso di tener testa alla feroce baldanza del mago Herrera, lo sciamano che doveva guidare i nerazzurri a mille vittorie. Un fisico men che normale, muscoli inesistenti, e qualche accenno di grasso superfluo sui fianchi. Nel calcio di oggi fatto di addominali scolpiti e di fisici statuari che spesso si afflosciano sul campo sarebbe forse stato rimandato a casa dopo un provino fin troppo frettoloso. L’unica cosa che sembrava legare Corso al calcio era un piede, uno solo, il sinistro. Ma quel piede avrebbe illuminato gli stadi di tutta Europa suscitando entusiasmi, chiamando paragoni. Se Gianni Rivera in omaggio al suo aplomb anglosassone era diventato il golden boy, se Gigi Riva era per la sua squassante potenza Rombo di Tuono presto Corso sarebbe stato conosciuto come il piede sinistro di Dio. Appellativo affibbiatogli in terra d’Israele dopo una delle (purtroppo rare) partite della nazionale azzurra.
Corso era il genio e il genio non ha bandiere. Pur identificandosi totalmente con i colori nerazzurri, diciassette stagioni consecutive prima di terminare la carriera a Genova, Corso era uno dei rari campioni amato anche dai tifosi avversari. Forse perché Corso era qualcosa di più di un calciatore, su Corso nascevano leggende, la predilezione per le zone d’ombra quando il sole scaldava le zolle di San Siro, l’immagine indolente dei calzettoni bassi alle caviglie in omaggio al suo idolo Sivori, tentazione e preda di trucidi difensori, il dribbling rallentato, perché Corso non scattava mai e dopo aver superato il marcatore gli lasciava il tempo di recuperare per saltarlo irridente una seconda volta e poi, a dispetto di tutto e di tutti e in contraddizione finanche con se stesso la zampata felice e improvvisa, lo scatto felino che gli permetteva di arrivare sulla palla prima di ogni altro. E l’immancabile imprecazione del mago Herrera “Allora sai correre, maledetto, solo non vuoi”, mentre lui tornava trotterellando verso il suo posto all’ombra.
Perché era di difficile collocazione Corso come tutti i fuoriclasse un po’ riottosi alla irregimentazione in un mondo che andava sempre più indirizzandosi verso la rigidità degli schemi. Forse già dieci o quindici anni dopo un giocatore come Corso non avremmo potuto vederlo, spodestato dai cursori schiumanti rabbia dei giorni nostri.
Ma quel piede unico aveva incantato anche Sua Maestà Pelè che l’avrebbe visto volentieri nel suo Brasile. A destra Garrincha, il passerotto, un altro che i ginnasiarchi odierni avrebbero subitamente scartato, in mezzo Pelè e a sinistra, ciondolante, Corso, capace di affascinare con quel piede anche le spiagge di Copacabana. E quelle punizioni indimenticabili, quando il portiere atterrito chiamava a gran voce la barriera, a destra, a sinistra, un po’ più in là, no, più vicino, cercando di capire dove sarebbe finita la palla assassina.
La chiamavano foglia morta, lui ne aveva carpito il segreto a un altro grande brasiliano, uno con quei nomi che sembrano giochi di bambini e s’imprimono forte nella memoria, Didì. L’avrebbero poi messa in repertorio tutti i più grandi, da Zico a Maradona a Platini. Ma quella di Corso rimane ineguagliata, un soffio di poesia leggera che volava sopra la barriera, e quel nome che non sembrava scelto a caso, a ricordare la canzone di Prevert che avevamo tanto amato. Perché le foglie morte ci portano a quei giorni che erano i più belli e i più felici, Les feullies mortes se ramassent a la pelle les suouvenirs e les segrets aussi.
Ma il nostro amore silenzioso e fedele sorride sempre e ringrazia la vita. Grazie, Mariolino.