È arrivato il Conte Bis, per combattere i “Pieni poteri” chiesti dal capo della Lega
Il secondo governo Conte parte con la benedizione di Europa e dei poteri forti (più avanti ne riparliamo); obiurgato dalle destre italiche come governo della truffa o governo dell’inciucio, per mettere fuori gioco Salvini e
Il secondo governo Conte parte con la benedizione di Europa e dei poteri forti (più avanti ne riparliamo); ma obiurgato dalle destre italiche come governo della truffa o governo dell’inciucio. Anche con espressioni più colorite, ma limitiamoci a queste due. Governo della truffa politicamente, per chi ha una visione di destra, ci sta: è non solo legittimo, ma ha una sua sia pur rudimentale consistenza. Truffa i cittadini perché negherebbe loro soluzioni politicamente più appetite (governo di destra, riedizione della compagine gialloverde, nuove elezioni). Opinione controvertibilissima, come quasi tutto in politica, ma sostenibile.
Ma governo dell’inciucio è a dir poco capriccio lessicale puerile. Però nel campo dell’incultura pasticciona e semplicistica funziona.
Non so chi sia l’imbecille che per primo ha introdotto la categoria dell’inciucio in politica. Se lo conoscessi ne proporrei la fustigazione pubblica sulle natiche scoperte. Ma ormai questa depravazione linguistica ha preso piede e qualunque forma di accordo, di compromesso, di alleanza fra formazioni politiche diverse (e magari anche reciprocamente avverse) viene bollata come inciucio: anche quando, in perfetta contraddizione col senso originale di questa parola (che giustifica iniziative nascoste, sottotraccia, camuffate), l’accordo si materializza in modo esplicito con la dichiarata volontà dei partiti contraenti di fare ciò per cui un partito esiste: realizzare il proprio programma.
Se da solo un partito non è in grado di farlo (in Italia, dopo Benito, il colpo non è più riuscito a nessuno), cerca delle alleanze, sapendo che ogni alleanza è un compromesso. Compromesso (e non inciucio) è stato il contratto gialloverde di quindici mesi fa. Compromesso (e non inciucio) è l’accordo programmatico di questi giorni. Nulla di più e nulla di meno.
I fatti ci diranno se il governo giallorosso sarà più efficace di quello gialloverde (o giallonero, se preferite). Ma entrambi sono nati celebrando un rito more uxorio fra due forze che erano ed apparivano assai distanti fra di loro. È questo l’inciucio? Riletta con questa lente, la storia della repubblica italiana è, da De Gasperi in poi, una amabile catena di inciuci.
Rousseau impataccato
Povero Rousseau. Vittima della prepotente incultura della famiglia Casaleggio, è diventato una piattaforma, santificando col proprio nome il contrario di quello che aveva scritto e predicato, e che cioè la volontà del popolo è sovrana, ma si esercita per delega e che il problema non è la costituzione di una immaginaria agorà, ma della regolamentazione (con leggi, vincoli, contratti, magistrature) dei rapporti fra il popolo e i suoi capi. Si era anche preoccupato di distinguere fra la volontà di tutti e la volontà generale, la quale, specie se il popolo non è “sufficientemente informato” (che vista profetica che aveva!), può diventare volontà di fazione e prevaricazione. Non vivendo in piccole comunità tribali, ma in città come Ginevra, Parigi, Torino, Rousseau conosceva i limiti oggettivi della democrazia cosiddetta a partecipazione diretta rispetto agli inevitabili vincoli di quella rappresentativa. Queste cose, chi a scuola ha letto un po’ di Rousseau (Di Maio e Salvini ne vennero esentati) le sa e non straparla né mortifica, impataccandolo a una piattaforma che è una specie di play- station, uno dei più originali filosofi dell’Illuminismo.
Partecipazione diretta
Che 80.000 cittadini italiani (prendiamo per buoni i dati della ditta Casaleggio) partecipino a una consultazione popolare non è un dato negativo. Ma che si consideri questa una fase evolutiva del processo di partecipazione politica è molto, ma molto discutibile.
Per esaltare la qualità della consultazione grillina attuata con la piattaforma Rousseau, le si contrappone l’intrigo di palazzo, il maneggio fra i notabili, gli stati maggiori, insomma quello che con disinvoltura si chiama la casta. No, le cose non stanno così. Certo che è meglio un clic che l’apatia o la delega in carta bianca. Ma la storia politica ha conosciuto tempi in cui i partiti (non ancora definiti da Pannella e dai suoi epigoni il marcio della società) mobilitavano la partecipazione diretta, nelle sezioni, nei circoli, nelle realtà associative periferiche, di decine di migliaia di iscritti e simpatizzanti, che certamente alla fine facevano un clic, ovvero votavano (per alzata di mano o in altro modo), ma lo facevano dopo aver discusso, parlato o sentito parlare, litigato, equivocato, corretto: dopo essersi confrontati con altre persone, più o meno preparate, più o meno motivate, ma disposte a mettersi in gioco prima di decidere, senza paura di riconoscere i propri errori. Questa forma di partecipazione (una agorà articolata e segmentata come è inevitabile avvenga nelle società complesse) non è neanche lontanamente surrogabile da nessuna delle forme alternative fin qui proposte. Non lo è neppure la piattaforma Rousseau, che nega in via di principio il sale della politica: il confronto diretto, la “carnalità” della partecipazione, e pone il soggetto al riparo da quella insostituibile didassi che è la possibilità di essere contraddetto, di argomentare, anche di ricredersi, guardando nelle palle degli occhi non uno smartphone, ma un essere umano. Questo, più che le pur inevitabili forme di hackeraggio, è ciò che rende implausibile (a tutt’oggi almeno) il web come forma avanzata di partecipazione diretta.
Il despota e i pieni poteri
Leggo e sento che questo governo nasce unicamente per impedire a Salvini di prendere il potere. E allora? Non è l’unica motivazione, ma è una motivazione che, con altre, giustifica in pieno la formazione di un nuovo governo. Qualcuno (non ricordo chi) nei giorni scorsi ha detto che questo governo è una forma di legittima difesa (formula cara a Salvini) nei confronti di un aspirante despota. E cosa altrimenti è uno che invoca per sé i “pieni poteri”? Salvini, in condizioni – immagino – di sobrietà, ha chiesto i “pieni poteri”. Non è una barzelletta di Calderoli o di Paragone, ma una affermazione testuale del capo della Lega. Ci rendiamo conto della enormità di questa affermazione?
I pieni poteri non si consentono a nessuno, e chi li chiede, se non è un disturbato mentale, va combattuto con tutti i mezzi politicamente consentiti: nell’alveo della Costituzione. Questa è l’essenza della democrazia, non la pretesa di elezioni ogni volta che si pensa di poterle vincere.
L’unica coerenza di Salvini
Svegliamoci. Si può essere ostili fin che si vuole a Renzi e a Conte, alla Merkel e ai “poteri forti” (a proposito, vi mettiamo dentro anche il “mercato”, ovvero il convitato di pietra che grazie alle prodezze dialettiche di Salvini e di Di Maio, ha saccheggiato le tasche degli italiani di decine di miliardi); tutto si può, ma che fiducia si può dare a un uomo (si chiama Matteo Salvini) che il 5 agosto ottiene il voto di fiducia sul decreto sicurezza bis (pessimo, ma parlamentarmente legittimato) e il giorno 8 dalla spiaggia (ma poteva essere anche una bettola o un chiostro) annuncia la sfiducia al governo di cui fa parte? Dice: ma il giorno prima i 5S avevano votato contro la realizzazione della Tav.
E allora? La battaglia sulla Tav i grillini l’avevano già formalmente e definitivamente persa. Cosa pretendeva l’aspirante despota? Che i grillini, per giunta in una votazione priva di qualunque effetto pratico, abiurassero a quella che era stata la loro più vigorosa battaglia?
Ma siamo seri. L’aspirante despota ha una sola forma di coerenza: quella alla sua smodata fame di potere. Per questo può oggi dire “viva i sindaci, abbasso i prefetti” e domani “via i prefetti, abbasso i sindaci”; oggi lanciarsi a testa bassa contro le province e domani esaltarne il ruolo. Oggi può dire viva Conte e ventiquattro ore dopo dirgli vattene a casa.
Ma basta, siamo seri.