Crocerossine sì, strateghe no. Qualche domanda sulla lotta al Covid. Intervento di Paola Pessina, Presidente Fondazione Comunitaria Nord Milano
Un amico in frontiera nella tempesta Covid mi sorprende: “Questa è la guerra delle donne”. Gli faccio osservare che alle donne non piace il concetto di guerra, e lui ribatte: “È vero: a lasciarci la
Un amico in frontiera nella tempesta Covid mi sorprende: “Questa è la guerra delle donne”. Gli faccio osservare che alle donne non piace il concetto di guerra, e lui ribatte: “È vero: a lasciarci la pelle sono di più gli uomini; ma attorno a me vedo battersi guerriere con un coraggio, una tenacia e una dedizione senza pari”.
Ha ragione: tra il personale medico ma soprattutto quello paramedico e socio-sanitario la prevalenza è nettamente femminile. L’epidemia è la trincea delle donne: un dato che rischia di sfuggire nella comunicazione, che sullo schermo e sui media dà parola praticamente solo al quartier generale composto di figure maschili, fatta eccezione per la signora senza nome ai bordi dello schermo che traduce nel linguaggio dei segni le comunicazioni istituzionali. E da lì una cascata di pensieri, a partire dal fatto che una volta di più si dimostra che la medicina di genere ha ragione di esistere e se indagata potrebbe avvantaggiare tutti: anche indagando la maggior resistenza delle donne al virus.
La crisi pandemica spinge con forza a smontare radicati stereotipi di genere, accelerando quel cambiamento che si sta innescando persino nostro malgrado. E la speranza è che la task force femminile battezzata dal ministro Elena Bonetti “Donne per un nuovo Rinascimento” dia un contributo determinante. Ne fanno parte 12 figure femminili di spessore, nessuna delle quali finora chiamata in cabina di regia: economiste, manager, ricercatrici e imprenditrici. Ne fa parte anche suor Alessandra Smerilli, economista.
Al momento non si ha notizia dell’operatività e delle proposte di questa, che potrebbe essere l’ennesima commissione di “esperti”: scritto volutamente al maschile, perché stiamo arrivando a saturazione anche di specialisti che raccontano ciascuno il suo pezzo di verità, difficile da comporre se non addirittura in contrasto con i pezzi dei colleghi. L’albero si giudica dai frutti. Attendiamo i frutti della task force al femminile e avvertiamo che ci aspettiamo da questa ciò che le donne di solito sanno fare, perché gli tocca farlo quotidianamente: tenere insieme i pezzi, farli combaciare uno con l’altro smussando angoli e trovando soluzioni concrete di coesione e inclusione.
Come la prima guerra mondiale ha trascinato le donne nelle fabbriche, alla guida di tram, a gestire uffici postali lasciati sguarniti dagli uomini, dimostrandone forza e competenza, questo tornado sta trascinando le donne ad avvalersi in modo massiccio – per esempio – della tecnologia digitale di base per mantenere la comunicazione a distanza: le insegnanti con gli alunni (e con le mamme degli alunni), le educatrici con le persone disabili, le assistenti con gli anziani; quelle che lavorano in smart working lo fanno attrezzandosi a casa e destreggiandosi tra lavatrice, figli e collegamento telematico.
La competenza può sospendere a tratti l’uso delle scarpe col tacco, dimostrando che le pratiche di conciliazione famiglia-lavoro permetterebbero molte soluzioni ben più sostenibili e flessibili di quelle oggi concesse con il contagocce. A partire dal fatto che nelle famiglie in cui anche gli uomini sono confinati a casa – o magari ci stanno da soli, perché è la donna che lavora fuori con la mascherina, come le migliaia anche loro in frontiera, nella filiera della grande distribuzione – la ripartizione tra compiti domestici, educativi e professionali può trovare equilibri di genere completamente nuovi, ben oltre gli schemi consolidati.
Lo shock dell’epidemia porta allo scoperto un elemento-base: la centralità delle relazioni e del servizio, del lavoro di cura, il cui valore è imparagonabile a quello dei prodotti di consumo. Possiamo perderci l’intera collezione primavera-estate, non ci servono cosmetici, ci tocca rinunciare a ristorante, cinema, aperitivo, discoteca e viaggi. Ci mancano: ma riusciamo a sopravvivere. Sarà un enorme danno economico per chi li produce, che andrà sostenuto col sacrificio di tutti, mettendo da parte furbizie ed egoismi: ma potremo riprenderci. Ma se ci vengono a mancare la presenza, l’energia e le competenze di medici, infermieri, operatori socio sanitari, psicologi, educatori (e mi tocca scriverlo al maschile, ma la prevalenza dovrebbe imporre il femminile!) che reggono le esistenze fragili di persone malate, anziane e disabili, o sane ma in crescita, il deserto si fa spazio tra di noi, inarrestabile.
L’abbiamo sotto gli occhi, la tragedia nelle residenze protette, nelle comunità dove l’unica materia prima che assicura la vita è la cura, quella che gli operatori (e le operatrici!) decimati dal virus fanno sempre più fatica ad assicurare, per cui chiamiamo in aiuto anche chi è in pensione, chi si è appena diplomato, chi ci viene in soccorso dall’estero: non macchine, persone ci servono. E formate: ci servono. Un servizio che non si improvvisa. Di valore inestimabile.
Il coronavirus è diabolico, nel senso letterale del termine: divide, ci costringe ad allontanarci gli uni dagli altri per salvarci. Ma paradossalmente ci dimostra quanto per salvarci abbiamo bisogno di relazioni, prima che di consumi, di presenze parole e gesti, prima che di beni. Di competenze, non di immagine. Di quello sguardo che tra gli umani è custodito dalle donne, le più disposte a possedere meno purché amanti e amate di più. Neanche i farmaci e le tecnologie salvano, se non c’è presenza e competenza di umani che li adattino ad altri umani: tocchiamo con mano che le decine di milioni spesi per attrezzare un ospedale nuovo sono improduttivi se non si trova la squadra di professionisti e assistenti che lo facciano funzionare.
E i soldi non garantiscono quell’infinita produzione di cura che nel mondo è prestata – in massima parte a titolo gratuito e in minor proporzione a titolo professionale – dalle donne. Le donne che – senza essere pagate quanto i calciatori, le star, i designer, i manager, gli stilisti, i finanzieri, i politici e tutti coloro che producono cose o immagine o dividendi – producono vita.
Se ci insegnasse a dare valore a ciò che davvero ha valore, il virus ci restituirà comunità più capaci di sguardo femminile, orientato alla cura prima che al profitto, al soddisfacimento dei bisogni di tanti prima che all’accumulo di pochi.
E sarà salute per tutti.
Paola Pessina, presidente Fondazione Comunitaria Nord Milano
Nella foto l’infermiera Viola, del Reparto di Terapia intensiva dell’ospedale San Paolo