Donne e lavoro agile o meglio lavoro da casa: il parere di chi lo sta sperimentando e la ricerca della Cgil
Il lavoro delle donne durante la quarantena ha significato qualcosa di diverso rispetto a quello degli uomini? Abbiamo raccolto alcune riflessioni di amiche impiegate in diverse aziende, che hanno praticato l’home working in questo (drammatico)
Il lavoro delle donne durante la quarantena ha significato qualcosa di diverso rispetto a quello degli uomini? Abbiamo raccolto alcune riflessioni di amiche impiegate in diverse aziende, che hanno praticato l’home working in questo (drammatico) periodo di lockdown.
ELISA, 60enne, è molto contenta dell’esperienza di lavoro in modalità smart, ma dichiara subito che ci vuole una forte autodisciplina «per non finire in lavatrice con il device – e aggiunge – l’impegno lavorativo è comunque molto più ri- lassante a cominciare dal risparmio di tempo per recarsi al luogo di lavoro». Elisa però aggiunge che è importante avere l’opportunità di uscire di casa, per non finire in uno stato di abbrutimento casalingo e mancanza di relazioni. Dunque, come quasi tutte, l’ideale sarebbe un sistema misto: parte del lavoro a casa e rientri settimanali nel luogo di lavoro. «In ogni caso la mia azienda non è molto favorevole allo smart working, perché i titolari preferiscono avere il controllo sul personale».
Intanto però hanno sospeso i buoni pasto e stanno cogliendo l’occasione per proporre il part time. «Nel mio caso, che oltre al lavoro di ufficio faccio presenza alla reception e mi occupo di tutto, fino alla macchina del caffè, la mia capa ha ventilato il fatto che una parte del lavoro lo posso svolgere in meno ore e che la presenza fisica non sarebbe necessaria, potendomi sostituire con una giovane stagista. Cosi dopo avermi messo in cassa integrazione a 4 ore e lavorando ugualmente (questo lo denunciano in tante – NdR), rischio adesso di dover accettare il part time».
SANDRA, 30enne, avrebbe volentieri fatto l’home working, ma è stato consentito solo alle lavoratrici con figli. «Le mamme erano molto contente e vorrebbero proseguire in questo modo, invece per costringerle a rientrare si sta producendo un certo mobbing nei loro confronti. La nostra azienda non vuole adottare lo smart working, perché secondo i capi c’è difficoltà di coordinamento, ma secondo me il fatto è che loro sono abituati a delegare tutti gli impegni più noiosi e in smart working non lo possono fare. Invece a casa sei molto più concentrato e non distratto da continue richieste».
Per la fornitura dei device è andata così così, qualcuna ha usato il Pc dei figli qualcun’altra si è portata a casa perfino la postazione fissa, lo spazio di lavoro ha comportato un certo nomadismo casalingo e l’azienda, come molte altre, ha continuato a far lavorare il personale pur avendolo messo in cassa integrazione. «Hanno sospeso anche i buoni pasto, certamente lo possono fare, ma ci sono mamme single che fanno fatica e anche il buono è un aiuto».
MICKI, 40enne, mamma single con figlio 17enne, si occupa del back office in un’azienda di comunicazione che già da 2 anni ha adottato il sistema misto da casa con rientri settimanali. È felicissima di questa soluzione che le permette di organizzarsi il lavoro, il tempo, la possibilità di tenere i contatti con i colleghi e partecipare agli eventi organizzati dall’azienda stessa.
Il personale aveva fatto un corso di formazione e gradualmente, chi lo preferiva, era passato al lavoro in smart, con il lockdown lo hanno sperimentato tutti e molti lo hanno apprezzato. La società fornisce tutti i device necessari e tutte le norme di sicurezza vengono rispettate».
Lavoro agile, la ricerca della Cgil
Secondo il Dpcm 8 marzo 2o2o: “(il lavoro agile) pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto”. Dove per remoto si intende qualsiasi luogo dotato di connessione. Purtroppo però il lavoro agile risulta essere più spesso una forma moderna (e forzata) di lavoro da casa. Gli ambienti di casa si sono ritrasformati per consentire chiamate, lezioni, appuntamenti a videocamera accesa, partendo dal presupposto che ciò fosse possibile, come se lo spazio domestico fosse un luogo che si può riempire di un lavoro che viene dall’esterno, senza creare impacci o ingombri.
Per capire come sia stato il lavoro a casa durante il lockdown, come sia stato realizzato e come sia stato percepito la Fondazione Di Vittorio su incarico della Cgil ha distribuito un questionario di 53 domande su quattro aree, che ha avuto 6.000 risposte in 2 settimane, il 65% delle quali da parte di donne. Dalle risposte è emerso che con il lavoro da casa c’è stato un risparmio del pendolarismo (un tempo liberato reinvestito nella cura della casa e della famiglia), una maggiore flessibilità, una minore esposizione alle molestie (per le donne), un maggior senso di solitudine, il timore che le relazioni e gli scambi con l’esterno diminuissero (sempre le donne), mentre per gli uomini prevale la speranza che possa continuare.
Interessanti le annotazioni sui device: sono soprattutto i maschi ad avere pc, tablet, smartphone, stampanti e cuffie! Le donne li usano in condivisione con la famiglia, soprattutto quando ci sono dei figli, scolari e studenti, in didattica a distanza. Le aziende e le persone preparate dapprima non hanno avuto difficoltà, chi ci è “scivolato dentro” nel periodo del lockdown si è spesso trovato impreparato.
La ridefinizione degli stili di vita ai tempi del coronavirus richiede uno sforzo ulteriore nell’usare le parole giuste per capire cosa sta accadendo e come vogliamo disegnare il futuro delle nostre attività.
Elena Bedei e Adriana Nannicini