Emergenze nazionali e responsabilità comuni
Siamo appesi all’emergenza. Da quasi sei mesi, dal terremoto dell’agosto scorso in Abruzzo. Ma, a ben guardare, la catena delle emergenze – quelle ufficialmente certificate – non si è mai interrotta. Ed è proseguita e
Siamo appesi all’emergenza. Da quasi sei mesi, dal terremoto dell’agosto scorso in Abruzzo. Ma, a ben guardare, la catena delle emergenze – quelle ufficialmente certificate – non si è mai interrotta. Ed è proseguita e prosegue in questi giorni. Ogni scossa sismica – di cui siamo ormai stati avvezzati a conoscere e valutare la “magnitudo” – protrae questa condizione, che da eccezionale sta diventando la dolorosa normalità. Gli esperti di protezione civile si sforzano di spiegare la differenza fra stato di emergenza e stato di calamità naturale. Alle calamità naturali soggiace soprattutto il settore agricolo e zootecnico (ogni anno per grandine, alluvioni, siccità non c’è quasi area del nostro paese che ne sia esente), mentre lo stato di emergenza, che viene proclamato dal governo e non da un singolo ministero, comporta interventi a 360 gradi su tutto un territorio colpito da un terremoto. Il caso dell’Abruzzo, che ha tragicamente sommato scosse sismiche ed eccezionali nevicate ha, finito per rendere impercettibile la linea di confine fra questi due “stati” di necessità: si sommano, moltiplicano effetti e costi, ampliano il perimetro degli interventi richiesti.
Il doloroso compito di aiutare e di ricostruire spetta all’intera comunità nazionale. Ma riguarda anche quel soggetto di incerta fisionomia che si chiama Europa. Di questo si sta discutendo, in questi giorni, in queste ore, fra Italia ed Europa. È una discussione tutt’altro che oziosa, perché definisce il grado di autonomia di ciascun paese membro dell’Unione, ma soprattutto la capacità dell’Europa di governare. Fin qui sembra di capire che a Bruxelles e negli altri centri di comando continentali la Unione Europea svolga soprattutto il ruolo di un collegio di revisori dei conti. Un po’ poco: dall’Europa si vorrebbe altro. Tenere i conti in ordine è non solo necessario, ma indispensabile. Ma modulare l’azione politica secondo il mutare degli eventi, questo distingue un organo di governo da un arcigno club di contabili. Non si tratta solo del concetto di flessibilità, sostantivo che per definizione invoca ogni genere di interpretazione: si tratta di stabilire linee di comportamento che rendano credibile uno sviluppo integrato dei paesi membri della Ue. Se non lo si capisce, si dà solo argomento di facile propaganda a quella vasta e rumorosa corrente di pensiero che si vuol chiamare “sovranista” e che – variante dotta del populismo – punta soprattutto alla dissoluzione dell’Europa. Argomenti a favore di questa tendenza ne esistono: non ci convincono, ma la prolungata crisi economica globale, che in Europa è stata mal fronteggiata, aiuta questo genere di argomentazioni. E, prima la Brexit, poi la vittoria di Donald Trump (che non sarà una calamità naturale, ma una calamità per l’Europa certamente lo è) hanno messo a nudo la debolezza politica dell’Europa. Si avvicinano le elezioni olandesi, poi quelle francesi, poi quelle tedesche. Forse quelle italiane. Se l’unica bussola resta il calcolo di sopravvivenza che ciascun governo nazionale (in carica o aspirante tale) coltiva, allora tanto vale seguire l’esempio della Gran Bretagna. Torniamo alla santificazione degli egoismi nazionali e magari alla vecchia moneta autarchica. È una inquietante prospettiva regressiva ed economicamente controproducente. Ma può essere battuta solo restaurando il primato della politica sulla finanza: cioè del valore di comunità di persone su quello di controllo dei flussi finanziari. L’Italia ha stanziato, dopo il terremoto di agosto scorso, 8 miliardi circa per la “ricostruzione”. Sono seguiti altri e quasi altrettanto gravi eventi catastrofici.
Il conto è sempre più salato. E già lo è per quello che c’è da fare in termini di medicina curativa. Se aggiungiamo la medicina preventiva, siamo chiaramente al di fuori di ogni schema di contabilità ragionieristica. Parliamo di medicina preventiva, cioè di prevenzione: una parola che significa il dovere di lavorare e di investire in tutte le opere di tutela del territorio, dei nuclei abitativi, della regimentazione delle acque. Se ne parla, in questi giorni, se ne parla tanto. Il rischio è che ancora una volta, passato lo choc, non se ne parli più. Fino alla prossima emergenza (cioè presto). E prevenzione significa programmazione. E soldi, tanti soldi. Da qualche parte i soldi debbono uscire, questo lo capisce chiunque, anche quelli che ad ogni provvedimento governativo, di qualunque tipo, in qualunque ambito (anche nello scenario delle calamità naturali) deprecano lo spreco di “soldi nostri”. E di chi debbono essere? Esistono dei soldi “altri” che risolvano le crisi senza toccare le nostre tasche? Soldi nostri vuol dire soldi italiani ed europei, se vogliamo essere un soggetto politico autorevole e non la spregiativa immagine che ne tratteggia Donald Trump. Da soli o con l’Europa? Bruxelles ha una grossa responsabilità a gestire vicende come la nostra. Già ha mostrato una preoccupante debolezza nel fronteggiare il tema dei migranti. Sarebbe esiziale se non definisse la compatibilità fra tenuta degli obiettivi di bilancio e gestione delle gravi emergenze. Perché se le opere di prevenzione sono pianificabili, le emergenze non lo sono. Ammenoché non abbia ragione padre Giovanni Cavalcoli, un sant’uomo, un catechista di valore, un predicatore domenicano, che ha stabilito – ai microfoni di Radio Maria – che il terremoto abruzzese è un “castigo di Dio”. Un castigo per le nostre colpe, naturalmente, e soprattutto quella di aver consentito le unioni omosessuali. A padre Cavalcoli è poi stato vietato per un anno di dire messa in pubblico, di confessare, di tenere conferenze, di rilasciare interviste, di pubblicare libri. Provvedimento severo: potevano lasciargli almeno il tempo di spiegare perché il Padreterno ha castigato soltanto gli abruzzesi. Forse che, anche nelle alte sfere, vige il principio “colpirne uno per educarne cento”?
Piero Pantucci
(Febbraio 2017)