Fotografia al femminile: due mostre da non perdere
Tante donne, con profili e storie diversi, hanno fatto della fotografia il proprio mezzo espressivo e artistico. Nel campo del ritratto, della fotografia di viaggio, del giornalismo sociale, fino al reportage di guerra. Ecco due
“Prima, donna. Margaret Bourke-White”
Margaret Bourke-White deve la sua fama alla fotografia di viaggio. Nata nel 1904 a New York, poco più che ventenne, dopo un breve e burrascoso matrimonio, scopre la sua vocazione: la fotografia. Si trasferisce a Cleveland, dove realizza pionieristiche e splendide fotografie industriali– fornaci, metallo fuso, ponti, ferrovie, pinnacoli – destinate a fare scuola. Nel 1930 è la prima fotografa occidentale in Urss.
Insieme con lo scrittore Erskine Caldwell (che diventerà suo marito per un breve periodo), percorre il Sud americano segnato dalla siccità e dalla povertà. Dal loro sodalizio nasce il libro You Have Seen Their Faces del 1937. Torna a New York, per partecipare alla nascita della rivista che più di ogni altra deciderà il gusto e lo stile fotografico degli Stati Uniti, Life. Continua a viaggiare, è l’unico fotoreporter straniero a Mosca durante il bombardamento tedesco della città (anch’esso pubblicato su Life). partecipa ai raid aerei in Africa, passa due lunghi periodi sul fronte italiano, fotografa lo strazio del campo di concentramento di Buchenwald appena liberato.
Nel dopoguerra è in Pakistan e in India, conosce Gandhi e fotografa i suoi ultimi istanti di vita. Segue l’esercito americano in Corea e l’inizio del conflitto tra Nord e Sud del Paese. Solo la malattia ne frena l’attività. Morirà nel 1971, al termine di 20 anni di lotta estenuante contro il Morbo di Parkinson. “Sono sempre stata contenta delle scelte che ho fatto. Se sai di poter contare su di te, la vita può essere molto ricca, anche se questo richiede una grande disciplina”.
In mostra a Palazzo Reale fino al 14 febbraio.
“Inge Morath. La vita. La fotografia”
Al Museo Diocesano di Milano fino al primo novembre 2020 – Una retrospettiva attraverso 140 scatti e moltissimi documenti rende omaggio a “Inge Morath. La vita. La fotografia”. Intelligente, libera, cosmopolita, curiosa, inquieta. Una viaggiatrice insaziabile. Il suo viaggio parte da Graz, in Austria, dove è nata nel 1923, per poi frequentare Berlino dove studia lingue romanze.
Prima donna ad essere ammessa nella leggendaria agenzia fotografica Magnum Photos, inizialmente come redattrice e poi come fotografa. L’incontro con Venezia nel 1951 sarà una vera folgorazione. “È stato chiaro fin da subito che da qual momento in poi non avrei fatto altro che la fotografa”, scriverà. “Appena ho iniziato a scattare sono diventata subito felice. Sapevo che avrei potuto esprimere le cose che volevo dire, dando loro forma attraverso i miei occhi”.
Tra il 1953 e il 1954 conosce Henri Cartier-Bresson, che diventerà il suo nume tutelare. Vola in Spagna, Iran, Stati Uniti, Cina e Russia. Nel 1960, sul set de Gli spostati, incontra Arthur Miller, suo futuro marito (nel 1962, e diventa madre di Daniel e Rebecca, quest’ultima diventerà regista, attrice, e scrittrice e sposerà Daniel Day Lewis). Qui immortalò una Marilyn Monroe (allora ancora moglie di Miller) solitaria che prova dei passi di danza. “La fotografia è essenzialmente una questione personale: la ricerca di una verità interiore”, diceva Inge Morath. “Sono più attratta dall’elemento umano che dall’astratto”.
Attraverso il filtro di una sensibilità e uno sguardo personali – come scrive il curatore Marco Minuz – in cui emerge sempre una componente di vicinanza, non solamente fisica, ma soprattutto emotiva. Infatti rimangono ritratti superlativi di Harold Pinter, Pablo Neruda, Doris Lessing, Pablo Picasso e Giacometti, per citare i più noti. Ma anche la camera da letto di Mao Zedong, e un lama che esce dal finestrino di una macchina a Time square. Le donne con tre pappagalli in gabbia in Iran.
I suoi ritratti sono come i suoi viaggi, segnati dal desiderio di scavare per conoscere un luogo e un’anima (conosceva sette lingue, mandarino compreso). Vedere, guardare, inquadrare per andare oltre l’apparenza delle cose e delle persone. Il percorso espositivo si chiude con l’ultima fotografia, scattata poco prima della morte improvvisa (a New York nel 2002). Inge Morath aveva appoggiato una pianta secca sopra un suo autoritratto del 1958, realizzato a Gerusalemme. Così il suo viso viene parzialmente nascosto dalla pianta. Un’immagine commovente.
Info su: Museo Diocesano