“Generazione 13 2.0”, per riflettere sulla soggettività del dolore
A cura di Annalisa Gatto Psicologa Psicoterapeuta Chi ha figli adolescenti o lavora con i giovani avrà già sentito parlare della serie tv più seguita tra i teenager (e non solo) di tutto il mondo: “Tredici” –
A cura di Annalisa Gatto
Psicologa Psicoterapeuta
Chi ha figli adolescenti o lavora con i giovani avrà già sentito parlare della serie tv più seguita tra i teenager (e non solo) di tutto il mondo: “Tredici” – titolo originale “13 Reasons Why” – . La serie, tratta dall’omonimo bestseller di Jay Asher, racconta di una diciassettenne Hannah Baker che si suicida dopo un anno scolastico di patimenti e umiliazioni. La ragazza parla dall’aldilà, dopo il suicidio, attraverso una serie di audiocassette registrate e lasciate per spiegare i motivi della sua scelta. Le trova sulla soglia di casa un compagno di scuola segretamente innamorato di lei: “Ti sto per raccontare la storia della mia vita, mettiti comodo”. Una serie forte che è stata duramente criticata, ma che dal mio punto di vista ha anche dei vantaggi e che, se adeguatamente spiegata ed elaborata, può aprire gli occhi ai coetanei di Hannah e ai genitori. Ha infatti il pregio di mettere sul piatto temi scottanti come quelli del bullismo e del cyberbullismo, della violenza psicologica di gruppo, di quella sessuale, della sopraffazione e del suicidio in età adolescenziale, nudi e crudi senza maschere di perbenismo o di eccessiva vittimizzazione.
Gli episodi offrono un’opportunità rara, quella di spiare e studiare da vicino i rituali della gioventù contemporanea pervasa da standard elevati, bisogni di accettazione totalizzanti, fragilità legate all’immagine di Sé, e un utilizzo massiccio dei social network con il loro solenne giudizio. Le foto imbarazzanti, l’epiteto di “miglior fondoschiena della scuola”, fino ad arrivare ad uno stupro e un consulente scolastico che suggerisce di dimenticare, tutte queste ragioni portano la protagonista a compiere il gesto estremo. Gesto sempre più diffuso in età giovanile e non del tutto compreso dal mondo degli adulti, a volte confuso con i tentati suicidi o gli attacchi al corpo (tagli, disturbi alimentari, fobie specifiche ecc.). È difficile distinguere suicidio, tentato suicidio e parasuicidio (individuare la volontà di uccidersi rispetto ad un’azione dimostrativa) e per questo noi adulti abbiamo il dovere di informarci e di parlare e condividere la vita con i ragazzi.
L’adolescente non ha una consapevolezza ben definita della morte: i confini tra comportamenti leciti e pericolosi sono sfumati e il tentativo di suicidio esprime sempre scoraggiamento verso le proprie capacità e delusione verso la comunicazione con l’altro. Eppure guardando la serie Hannah ci viene presentata come una normale adolescente, con le domande e le incertezze della sua età, nulla di lei la descrive come patologicamente depressa o psicologicamente malata. La vediamo sin dall’inizio solo eternamente incerta e confusa come tanti, ha una buona famiglia alle spalle, va bene a scuola, è carina e corteggiata eppure qualcosa è sfuggito a tutti, perfino a lei stessa. Vedere che anche una come lei si uccide deve far riflettere sulla soggettività del dolore, deve avvicinarci al modo unico di reagire alle situazioni di ogni singolo individuo, eliminare giudizi, pregiudizi e stereotipi, e imparare a sentire davvero quello che hanno da dirci i giovani. Non ci sono regole da dare per capire tutto né indizi ineluttabili da seguire per prevenire il disagio giovanile, ma esistono l’ascolto e l’empatia: impariamo a svilupparli.
Scrivile: psicologannalisagatto@gmail.com