Gli scatti di Richard Avedon in una grande mostra a Palazzo Reale fino al 29 gennaio 


“Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi”. Questa è una delle più celebri

“Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi”. Questa è una delle più celebri frasi di Richard Avedon (1923-2004), uno dei più grandi maestri della fotografia del Novecento, famoso per i suoi scatti di moda (legati soprattutto, ma non solo, a riviste del calibro di Harper’s Bazaar, Vogue) e per i suoi ritratti iconici in bianco e nero che restano ancora oggi punti di riferimento imprescindibili della cultura visuale contemporanea.
A lui è dedicata la mostra Richard Avedon. Relationships allestita a Palazzo Reale fino al 29 gennaio 2023, curata da Rebecca Senf, responsabile della collezione del Center for Creative Photography, in Arizona (il centro per lo studio della fotografia più importante del mondo), promossa dal Comune di Milano e realizzata in collaborazione con il Center for Creative Photographye (prestatore assoluto delle immagini), la Richard Avedon Foundation, e Skira, che con la Maison Versace ha sostenuto questa importante operazione.

Un ritorno a Milano, quello di Avedon, scomparso nel 2004, all’età di 81 anni, colpito da un ictus cerebrale mentre era impegnato nella realizzazione di un servizio fotografico per il New Yorker. Domenico Pirana, direttore di Palazzo Reale non nasconde la forte emozione ricordando una prima retrospettiva dedicata ad Avedon nel gennaio 1995, allestita nella maestosa Sala delle Cariatidi, riaperta al pubblico proprio in occasione di quella mostra per iniziativa congiunta di Philippe Daverio, Leonardo Mondadori, Gianni e Santo Versace. “Quando Avedon vide la Sala in tutto il suo splendore decadente (alcuni spazi recuperati e altre stanze ancora lacerate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale), decise che era il luogo ideale per una mostra che riguardasse tutta la sua carriera. E fu un clamoroso successo di pubblico”, racconta Pirana. Realizzò poi le edizioni 1995 del Calendario Pirelli con quattro top model una per ogni stagione: Naomi Campbell, Christy Turlington, Nadia Auermann, Farrah Summerford.

In mostra oggi, 106 sorprendenti immagini raccontano oltre 60 anni di carriera, spaziando tra fotografia di moda, ritrattistica, reportage e pubblicità. Seguite il consiglio della curatrice Rebecca Senf e prendetevi il tempo per guardare con calma le fotografie. Ognuna di loro è così ricca di dettagli che ha bisogno del tempo necessario per essere assorbita. Le immagini di Avedon ci raccontano una storia senza bisogno di parole. E rivelano sempre qualcosa di sorprendente. Non è pensabile immaginare la storia della fotografia senza Richard Avedon. Innovativo è stato il suo modo di lavorare con le modelle che fino ad allora venivano riprese quasi ed esclusivamente in studio, in pose statiche e irrigidite: Avedon le porta in giro per le strade, le fa sedere nei bar, a guardarsi intorno, chiamandole a interpretare una vera e propria narrazione. Caratteristica che oggi diamo per scontata, ma che negli anni Cinquanta era una vera rivoluzione. Ed ecco allora le divine delle passerelle di quei decenni del Novecento: da Dovima a China Machado, Carmen Dell’Orefice, Suzy Parkere e poi ci saranno Jean Shrimpton, Penelope Tree, Twiggy, Veruschka, fino alle modelle delle sfilate di Versace.

Verità interiore. Se forti, impattanti sono le immagini di moda, altrettanto lo sono i ritratti: potenti, descrittivi, che grondano cura per i dettagli, anche minimi. Tutti rigorosamente in bianco e nero. Le star e le celebrità, si contendono la sua attenzione e il suo obiettivo. Che si tratti di attori, ballerini, capi di stato, inventori, musicisti, attivisti per i diritti civili, artisti o scrittori dai Beatles, a Dylan; da Michelangelo Antonioni, a Sofia Loren; da Allen Ginsberg, al Dalai Lama, Andy Warhol, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Beatles, una Marella Agnelli algida, filiforme e così eterea che perfino l’immagine sfuma facendo sembrare il suo profilo quello di un cigno Malcolm X, Marylin Monroe, Truman Capote, stanco e precocemente invecchiato. Una giovanissima Nastassja Kinski che giaceva immobile sul pavimento di cemento nuda con un serpente (prima foto in alto): è la fotografia scelta per la comunicazione della mostra, è stata scattata nel 1981. Lui a terra, per due ore in attesa che si presentasse l’istante perfetto. Lui a terra, Kinski immobile e l’incantatore di serpenti intento a indirizzare il rettile. E infine il caso che crea la perfezione: il serpente sfiora con la lingua l’orecchio della splendida Nastassja. Scatto.
“Spesso penso che vengano da me per farsi fotografare come andrebbero da un medico o da un indovino: per scoprire come sono”. Si concentrava sul ritratto per cogliere attimi, luci, espressioni uniche in ogni volto. Quell’essenza che ne mette in mostra la verità interiore. Senza falsità, senza inganno. Nel ritratto, quello che Avedon cerca non è tanto la perfezione ma “quando qualcosa di inatteso accade in un volto”. Il geniale paradosso è che la fotografia, per Avedon, era uno strumento per rivelare proprio ciò che non si vede. Diceva anche: “Se mi fossi dato al business della magia, non avrei letto mani o fondi di caffè, avrei letto le facce e avrei avuto successo”. 

I celebri fondali bianchi. Maniaco della perfezione, poteva scattare interi rullini prima di realizzare una foto buona. Un’altra peculiarità di Richard Avedon è la grandezza smisurata dei formati delle sue immagini, alcune delle quali misuravano oltre 3 metri d’altezza. E il celebre fondale di luminosa carta bianca dove si annulla ogni possibilità di distrazione avevano anche lo scopo di far risaltare la persona e ogni suo particolare. “Il bianco aiuta a separare il personaggio dal resto. Nel bianco sei solo”, solo sotto lo sguardo di Avedon. I suoi ritratti su uno sfondo chiaro sembrano semplici e senza pretese, ma hanno un effetto quasi ipnotico, lasciandoti incapace di staccare lo sguardo dalla foto. Avedon è riuscito a dare al soggetto una centralità, rivelandone il lato più nascosto. Al tempo stesso, come affermava lo stesso fotografo, ogni suo scatto, anche quello meno importante, porta con sé un frammento della sua anima.
Il suo lavoro non si rivolge solo alla moda. Punto di svolta della carriera di Avedon è stato il Progetto The American West (che culminerà con il libro e la mostra “In the american West”) dove si concentrò sui disoccupati, operai, minatori sporchi, contadini stanchi, e vagabondi alcolizzati e anche reduci di guerra sfregiati e tutto ciò che rappresenta l’America disagiata e in stato di ebollizione. È il 1979 quando l’artista newyorkese intraprende un viaggio lungo cinque anni per dare corpo e visibilità all’esistenza di tanti esclusi dal grande sogno americano. Sei estati di lavoro, dal 1979 al 1984, Avedon e il suo team di assistenti viaggiano in 17 stati dell’Unione americana, in 189 città, catturando i volti di 752 soggetti (utilizza la sua affezionata Deardorff 8×10), vengono scattati 17mila negativi in bianco e nero in formato 20×25. I ritratti scelti per la mostra sono 123. Risultato? Travolgente. Pubblicando questi crudi ritratti scioccò la patinata America degli anni ’80. “Volevo che l’energia della persona venisse fuori dal bianco, vivida e unica, senza la distrazione del paesaggio”, dice Avedon descrivendo la scelta di fotografare il suo “Far-West” americano davanti a un fondale di carta bianco. E ancora: “Nel West, ho lavorato con grande, grandissima, intensità. Ho fotografato ciò che mi fa più paura: invecchiare, la morte, e la disperazione di vivere”. Fotografa anche gli ospiti di una clinica psichiatrica, uno dei suoi lavori più struggenti: e il senso di impotenza che prova per non essere stato in grado di salvare la sorella adorata Louise, è palpabile e umanissimo (Louise che già aveva manifestato seri disturbi psichici durante l’adolescenza, fu ricoverata in istituto dove morì tempo dopo, a soli 43 anni). 

Sei immagini iconiche

Dovima with elephants È forse la sua immagine più conosciuta. È stata scattata al Cirque d’hiver (“Circo d’inverno”) di Parigi, nell’agosto del 1955. Dovima, la modella più pagata dell’epoca, e più conosciute di Vogue, probabilmente la prima top model ad essere chiamata tale, indossa un abito da sera Dior con un lungo nastro, tra due elefanti legati con una catena. Il contrasto è sorprendente: fra la forza degli elefanti sporchi e ruvidi e la leggerezza della moda. L’abito funge da punto focale della foto ed è stato il ​​primo del diciannovenne Yves Saint Laurent, allora assistente di Dior. Dovima era terrorizzata: “Dovi, per favore puoi stare più vicina agli elefanti? Voglio che non siano troppo sfocati e che si veda la pelle grinzosa”. La storia della fotografia di moda aveva inizio.

The New Look of Dior La modella Renée fa ruotare la gonna Corolle firmata Dior nel centro di Place de la Concorde a Parigi, 1947, e attira l’attenzione di tre passanti. Voilà. Dior rivoluziona la moda, Avedon introduce per la prima volta il movimento nella foto di moda. Le fotomodelle, sempre abili nel tenere la posa ferma, con Avedon improvvisamente si animano. Ispirato dal fotografo ungherese Martin Munkacsi, Avedon porta le sue modelle fuori dallo studio per realizzare ritratti “en plein air”, che giocano con il movimento e le pose. Nello sfondo di un’affascinante Parigi, le mise sedute nei caffè, in giro per le strade, come donne qualsiasi, ma con addosso abiti splendidi. Ritorna la gioia di vivere dopo gli austeri anni della guerra.

Carmen Un omaggio a Martin Munkácsi, 1957. Un’immagine di impronta quasi cinematografica, scattata in Place François Premier a Parigi. La top model italo-ungherese Carmen Dell’Orefice – altissima e naturalmente elegante, con cappotto di Cardin – è posta al centro dell’inquadratura, con ombrello e cappotto di Cardin dalle grandi tasche laterali. Anche in questo caso Avedon indovina il momento decisivo che rende memorabile lo scatto: Carmen è colta sospesa a mezz’aria mentre scende dal marciapiede in un leggero salto, con indicibile grazia e levità. La donna che vediamo non è solo un’indossatrice, ma una complice del fotografo, incalzandolo e sfidandolo a scattare l’attimo irripetibile, in questo caso un salto. 

Charlie Chaplin leaving America, foto del 1952. Avedon riceve una chiamata: è Charlie Chaplin, gli chiede un ritratto. I due si incontrano nello studio newyorchese di Madison Avenue.  Quando la sessione sembrava finita, Chaplin si appoggia le dita sulla testa a mo’ di corna, come un toro pronto all’attacco e un ghigno sarcastico. Un particolare inatteso e imprevisto. È in quel momento che Avedon decide di scattare. Divenne una foto storica e simbolica perché, anche se Avedon non poteva saperlo, la mattina dopo Chaplin sarebbe salito a bordo di una nave diretta in Inghilterra senza intenzione di tornare in America perché denunciato dall’Fbi come simpatizzante comunista. Quell’immagine di Chaplin, così beffardo, dice tutto: la forza della comicità anche senza parole, il disprezzo per il “maccartismo” che stava mettendo istericamente sotto accusa molti artisti del cinema e il senso di libertà di un uomo che non intendeva sottoporsi a ridicoli processi. Così, con una boccaccia da ragazzino dispettoso, Chaplin salutava l’America che non gli piaceva più. 

Marilyn Monroe Il suo volto bellissimo e pensieroso viene immortalato tra una pausa e l’altra della sessione fotografica. La Monroe aveva chiesto: “Ci siamo?”. Avedon aveva risposto “No”. Avedon disse che doveva verificare alcune impostazioni sulla macchina fotografica, in quel momento Marilyn aveva abbassato la guardia, aveva smesso di posare. Ed è allora che lui ha scattato la foto. Marilyn non è più la famosa attrice, è solo una donna. Bellissima e indifesa.  che si è persa all’interno della propria anima tormentata. La sua ingenuità infantile. La sua fragilità. Malinconie, pensieri, dubbi, angosce. Proprio quelle verità interioriori che Avedon ricercava. La Marilyn segreta.

Kara Young e Reinaldo, campagna Versace primavera-estate 1995. Sono Inginocchiati l’uno sull’altro per presentare magistralmente un foulard in seta colorato di Versace che svolazza verso il cielo, a guisa di farfalla. I volti nascosti dei due modelli accendono la curiosità su quanto potrebbe stare accadendo al riparo dei nostri occhi. L’ultima sezione è dedicata alla collaborazione fra Richard Avedon e Gianni Versace, iniziata con la campagna per la collezione primavera-estate 1980, che segna l’esordio dello stilista, fino a quella della collezione primavera-estate del 1998 firmata da Donatella Versace. Gianni Versace, ancora bambino, scopre Avedon nella sartoria della madre a Reggio Calabria, dove arrivano pubblicazioni come la stessa Harper’s Bazaar e Vogue, e in quel momento Gianni decide che un giorno lavorerà con lui. “Con Avedon c’era una fiducia assoluta. Fiducia nella sua luce, nella sua narrazione. “Fiducia nel nostro rapporto”, ha raccontato Donatella Versace, ricordando gli anni di lavoro con lui e il fratello. 

“Richard Avedon – Relationships”, Palazzo Reale fino al 29 gennaio 2023
www.palazzorealemilano.it

Gli inizi

Richard Avedon (dalla famiglia e dagli amici viene chiamato “Dick), nasce a New York nel 1923 da una famiglia ebrea di origine russa. Sua madre, Anna, proveniva da una famiglia di produttori di abiti e suo padre, Jacob Israel Avedon, aveva un negozio di abbigliamento in Fifth Avenue. Gli regalò la sua prima macchina fotografica, una Kodak Brownie, all’età di 10 anni. Fu proprio il padre Jacob Israel a incoraggiarlo a dedicarsi alla fotografia, dopo aver scoperto uno scatto che Dick aveva effettuato a soli dieci anni al famoso vicino di casa, il compositore russo Serghei Rachmaninoff che aveva un appartamento nel palazzo dove abitavano i suoi nonni e lui, bambino, si nascondeva tra i bidoni dell’immondizia, sulle scale sul retro, per ascoltarlo mentre suonava. “Un giorno ho pensato: devo suonare il suo campanello. Ho chiesto se potevo scattare la sua foto con la mia macchina fotografica. In un certo senso, quello è stato l’inizio”, ricorderà. Il giovane iniziò scattando foto agli abiti nel negozio del padre. Prima modella, musa ispiratrice la sorella minore Louise. Il suo destino era già chiaro: voleva fare il fotografo. Ma sognava di fare il poeta.  Entra alla Columbia University nel 1940, per studiare poesia e filosofia, ma poi irrequieto abbandona gli studi per arruolarsi nel 1942 nella Marina Mercantile Americana, dove rimase due anni, passati a ritrarre l’equipaggio grazie alla Rolleyflex che il padre poco prima di partire gli donò, ma fotografa anche i cadaveri straziati dei soldati, foto per le carte d’identità dei marinai.
A segnare il suo destino di fotografo di moda di caratura internazionale è stato l’incontro con Alexey Brodovitch, direttore di Harper’s Bazaar a New York, rimasto affascinato da una sua foto scattata a due reclute gemelle durante il servizio militare: una a fuoco, l’altra sfuocata: “Se riesci a mettere la stessa intensità in una foto di moda, torna a farti vedere”, gli disse. Ne nasce una collaborazione fruttuosa che durerà per molti anni. Nel 1952, a soli ventinove anni, Avedon era già in vetta. Nell’aprile del 1965 abbandona Harper’s.

Richard Avedon.

Si occupa della sezione Cultura e Società per donneinsalute.it; da free lance ha collaborato con le maggiori riviste femminili (Anna, Donna Moderna, La Repubblica delle donne, Glamour, Club 3). È stata redattore del mensile Vitality di Psychologies magazine e Cosmopolitan, occupandosi di attualità, cultura, psicologia. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Come un taglio nel paesaggio” (Genesi editore, 2014) “Sia pure il tempo di un istante” (Neos edizioni, 2010).

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