Il giardino dei ciliegi, La locandiera e Oblomov: tre grandi classici rivisitati e visti in tre teatri cittadini
Un classico è un autore che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, scriveva Italo Calvino. Quello che ci racconta è lontano dai nostri giorni, eppure è misteriosamente attuale, parla di
Un classico è un autore che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, scriveva Italo Calvino. Quello che ci racconta è lontano dai nostri giorni, eppure è misteriosamente attuale, parla di noi, dei nostri sentimenti, di quelle passioni e pulsioni umane che si ripeteranno finché esiste la specie umana. È altrettanto vero però che si è sempre un po’ perplessi sull’attualizzazione narrativa o sull’ambientazione di un testo del teatro classico negli anni in corso: il rischio è quello di sfiorare anche impercettibilmente la parodia, e togliendo qualcosa e aggiungendo qualcos’altro, impoverire l’opera (talvolta persino stravolgere le intenzioni dell’autore). Sfida invece brillantemente superata dalle proposte di tre celebri grandi classici (Cechov, Goldoni, Gonciarov) che abbiamo visto in questo febbraio in tre teatri cittadini. Premiati dagli applausi del pubblico (in sale sempre piene di giovani). Giocando su diversi registri, fra leggerezza e ironia, invenzioni sceniche e decontestualizzazioni storiche, ci raccontano il nostro quotidiano con la profondità di cui i classici sono stati maestri.
Una Locandiera dall’anima pop. Tutta da ridere
Travolgente, “plasticosa”, dai colori sgargianti e ritmata come un musical, La locandiera di Goldoni (andata in scena per la prima volta durante il Carnevale di Venezia del 1753 – nella foto sopra gli attori) viene proposta fino al 19 febbraio all’MTM Teatro Leonardo di via Ampère nella rilettura di Corrado D’Elia, in duplice veste di regista e interprete (nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta). Fedele al testo goldoniano, D’Elia ambienta la celebre commedia tra pareti rosa confetto lucide di una casa dichiaratamente finta, con lampade colorate che si accendono e spengono a suon di musica disco anni ’80, dove gli attori si muovono a un ritmo accelerato, in una girandola di inchini leggiadri e un susseguirsi di “Illustrissimo”. Attori che la costumista Stefania di Martino si è divertita a vestire con abiti di plastica lucida rosa shocking, giallo, rosso, blu.
La Mirandolina plastic girl interpretata da una brillante Chiara Salvucci, con parrucca biondo platino e inguainata in una tuta di latex rosa shocking aderentissima, lotta per portare avanti la locanda dopo la morte del padre, piega e stira panni, si diverte a far girar la testa ai clienti… E alla fine, dopo aver respinto un marchese, un conte e un cavaliere, sceglie di sposare il suo servo tuttofare Fabrizio (interpretato da Marco Brambilla, in azzurro vestito). E resta l’indiscussa padrona della propria vita. Un’icona ante litteram di emancipazione femminile.
E con lei in scena un gruppo affiatato di attori: Gianni Quillico, in frac rosa e pantaloni bianchi ben sottolinea tutto il ridicolo del suo personaggio, lo squattrinato e vanesio marchese di Forlinpopoli, regalandoci un personaggio divertente, capriccioso (“mi diverto a interpretarlo, il teatro è anche gioco”, ci racconta l’attore). Sfacciatamente tamarro, con la sua sgargiante giacca gialla, il Conte d’Albafiorita (Daniele Ornatelli) ricco borghese che si è comprato una carica nobiliare, che ostenta gioielli e denari offrendoli alla locandiera quasi come merce di scambio per riceverne attenzioni, mentre Corrado D’Elia ritaglia per sé il personaggio del selvatico cavaliere di Ripafratta, che disprezza le donne e ostenta indifferenza ma alla fine, domato e gabbato dall’apparente non curanza della locandiera: ora burbero ora tenero, nelle sua mimica plastica e disarmante, da suscitare comunque simpatia. Intrigante la trovata del travestitismo delle due allegre commedianti Ortensia e Dejanira che compaiono nella commedia del Goldoni e fingono di essere nobildonne. Il regista sceglie di affidare il ruolo a due uomini en travesti, Tino Danesi e Andrea Tibaldi (in perfetto stile trans-trash, ma forse qualche urletto di meno avrebbe giovato).
Insomma, l’avrete capito, uno spettacolo esilarante che gioca con il kitsch, e alla fine rende omaggio alla genialità di Goldoni. Ci è sembrato di vederlo l’illustrissimo Goldoni paternamente sorridente con il tricorno, ad applaudire in platea con il pubblico.
Il giardino dei ciliegi. Il tempo che avanza inesorabile. La difficoltà a capire il mondo che cambia
In scena fino al 26 febbraio al teatro Ciro Menotti una nuova edizione del capolavoro di Anton Cechov Il giardino dei ciliegi (nella foto sopra gli attori) la un grande classico del teatro russo, definita dall’autore una commedia buffa e disperata (scritta tra il 1902 e il 1903, poco prima della Rivoluzione d’Ottobre, coglie le energie, il ribollire sotterraneo dei grandi cambiamenti sociali), con la regia e l’adattamento di Rosario Lisma che ne è anche convincente interprete nella parte di Lopachin, figlio di uno dei servi che si è arricchito (e sarà il nuovo proprietario della casa degli antichi padroni, andata all’asta per debiti).
La storia può essere riassunta così: c’è una stanza in una grande casa che i proprietari sono costretti a mettere all’asta per pagare un’ipoteca, la stanza chiamata ancora “dei bambini”. E c’è un meraviglioso giardino, simbolo di rimpianti, speranze e sogni. Una storia di perdite, ricchezza dilapidata, lutti ancora cocenti, passioni sfiorite del tempo che fugge.
Arrivano nella grande casa Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, un’aristocratica russa vissuta per tanti anni a Parigi e segnata dalla perdita del marito e dell’amato figlio piccolo, morto annegato, abbandonata anche dall’ultimo amante francese per cui si è rovinata economicamente. Torna accompagnata dalla figlia diciassettenne Anja, da suo fratello Leonid Andreevic Gaev, adulto mai cresciuto, incapace di prendere alcuna iniziativa concreta per scongiurare la vendita all’asta della proprietà. I soldi sono finiti: rimangono solo i ricordi di un passato felice.
La versione proposta da Rosario Lisma ha dato all’opera di Čechov leggerezza, intensità, passione, ironia, in equilibrio fra ricordi bellissimi e ricordi traumatici, tra il ridere e il piangere dei personaggi (arriva sempre un effetto comico inaspettato a spezzare i momenti troppo carichi di pàthos), non cambiando nulla della lettera del testo. Il suono del cellulare è uno dei tocchi contemporanei, come gli abiti indossati dagli attori. La bella canzone di Franco Battiato Le stagioni dell’amore (un invito a non rimpiangere mai le storie d’amore passate e le occasioni perse poiché non torneranno più). Pochi elementi scenici richiamanti la “stanza dei bambini”, cubi colorati, un grande orsachiotto: oggetti volutamente sproporzionati rispetto alla statura dei personaggi, come se fossero ancora piccoli rispetto all’ambiente, mai cresciuti. Un grande armadio centrale sullo sfondo. Testimone del tempo felice che fu. Sempre chiuso per tutto il tempo dell’azione scenica. Si aprirà solo sul finale con la voce di Roberto Herlitzka (uno dei più grandi attori del nostro teatro) che sentiamo da fuori scena: chi parla è il vecchio servo Firs morto, chiuso nella casa, forse per sempre. Intrigante la scenografia con un lampadario a gocce partecipe del destino della casa e che lentamente scende dal soffitto verso il pavimento. Generosa e convincente la recitazione degli attori, Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli e Dalila Reas.
La casa si svuota. Resta solo Lopachin con le chiavi che gli ha gettato Varja, figlia maggiore di Ljuba, che andrà a rifarsi una vita altrove. E riuscirà ad aprire quell’armadio davanti al quale il fratello Gaev aveva pronunciato parole estasiate. Ma non il suo cuore. Torna il silenzio, si sente solo, lontano, il rumore delle motoseghe che si abbattono sui ciliegi. Per costruirvi villini per i villeggianti.
Per Cechov Il Giardino dei ciliegi è il racconto della perdita di potere della vecchia classe aristocratica, che non ha saputo amministrare ciò che aveva, e ora è incapace di capire che il mondo sta cambiando. Che l’economia misura ormai tutte le cose e non consente cedimenti sentimentali. in contrapposizione alla bellezza del Giardino dei ciliegi. Come i suoi anti-eroi, anche noi viviamo oggi un tempo inquieto, di lacerazione.
Oblomov show. Ovvero gli sdraiati sul divano
Quante volte la mattina avete avuto quella tipica riluttanza ad alzarvi dal letto, iniziare la giornata, fare la spesa, iscrivervi a un corso di inglese. Quante volte la mattina avete avvertito quell’irresistibile sensazione di svogliatezza, immobilità. In una parola, di pigrizia? Dal 9 al 12 febbraio, è andato in scena al Teatro Litta Oblomov show con la Compagnia Oyes (nella foto sopra gli attori) nell’adattamento e regia di Stefano Cordella, liberamente ispirato a Oblomov di Ivan Goncarov, uno dei più importanti romanzi russi di fine Ottocento.
Per uno strano male dell’anima, Il’jà Il’ìč Oblomov, un signorotto che vive di rendita a San Pietroburgo, ha rinunciato a vivere. Pigro e indolente con la sua amata vestaglia all’asiatica che lo avvolge e lo protegge, passa le sue giornate nella più totale inattività, nella sua casa a San Pietroburgo, steso sul divano, battibeccando con l’anziano servo Zachar. Dormendo e vagheggiando piani di riordino e modernizzazione delle sue terre che non riesce neanche a mettere su carta.
Nello spettacolo di Cordella, l’Oblomov contemporaneo (Dario Merlini) è un regista dai trascorsi artistici importanti, che dopo alcune delusioni lavorative e sentimentali ha scelto di isolarsi nella vecchia casa di famiglia con il fratello Zachar (Francesco Meola), lontano da colleghi, passioni e da qualunque tipo di ambizione, anche lui vive una vita “orizzontale”, in compagnia del fratello studente fuori corso di Infermieristica, con il talento della procrastinazione. Ha solo sostituito la vestaglia con una felpa, se ne sta sdraiato sul divano, interessato al cellulare, quasi ipnotizzato dal “gioco delle rane” e impegnato nei suoi passatempi preferiti: comprare l’ennesimo aspirapolvere on line e ordinare la cena con un semplice click sul telefono.
In questa chiave di lettura, l’Oblomov sembra parlare dell’attuale generazione dei 20-30enni (Gli sdraiati di Michele Serra) provando a raccontare in chiave tragicomica la paura di rimettersi in gioco. È uno strano paradosso: sono le parole di un romanziere russo di metà Ottocento a descrivere alla perfezione la nostra apatia, la nostra disillusione, e la stessa paura dei rapporti umani, la paura a mettersi in gioco, una sorta di timore molto accentuato nei confronti del fallimento, prima ancora di averci provato. Nel suo adattamento Cordella (nato a Desio nell’85), dice di aver messo il ricordo di certi giorni neri da lui stesso provati quando, ragazzo, “avrei preferito non scegliere e rimandare le decisioni, gli impegni, gli incontri al giorno successivo. Stare sul letto tutto il giorno ad ascoltare musica, pianificare un viaggio che non potevo permettermi, immaginare l’incontro perfetto con la ragazza che mi piaceva”.