Il ministro di Mammona

«Salverò il centro di Roma dai saccheggi!» esclamava dalle stanze del Viminale Angelino Alfano. «Nessuno può servire a due padroni, a Dio e a Mammona» scandiva quasi contemporaneamente dal pulpito di San Pietro padre Raniero

«Salverò il centro di Roma dai saccheggi!» esclamava dalle stanze del Viminale Angelino Alfano. «Nessuno può servire a due padroni, a Dio e a Mammona» scandiva quasi contemporaneamente dal pulpito di San Pietro padre Raniero Cantalamessa. Era il 18 aprile, il Venerdì Santo. La simultaneità delle due affermazioni, entrambe forti e caratterizzate, è fortuita, o forse no. L’accostamento è quasi obbligato: ci aiuta a leggere in modo non casuale la nostra contemporaneità. Alfano è un ministro dell’Interno a rigore alternato. Si distrae quando agenti stranieri rapiscono in pieno centro la moglie e la figlia di un profugo politico o quando un ricco pregiudicato, alla vigilia di una sentenza definitiva di probabile condanna, viene lasciato libero di espatriare in Libano, a dispetto delle raccomandazioni della magistratura. Questo è il volto lassista e bonario di Alfano. Che invece serra la mascella e minaccia il pugno duro se si tratta di impedire ad orde di saccheggiatori di mettere la capitale “a ferro e fuoco”. La severità selettiva di Alfano sembra orientata da quello che un tempo non tanto lontano veniva chiamato spirito classista: forti coi deboli e deboli coi forti, per dare al concetto di “legge e ordine” una connotazione non dubbia. Due considerazioni sulla minaccia di Alfano. La prima riguarda la natura di quella manifestazione (il “saccheggio”).

CALCIO: ROMA-LAZIO; ALTRI DUE ACCOLTELLATI, NON SONO GRAVIChi scende in piazza per il diritto alla casa, se togliamo le inevitabili presenze provocatorie, comunque minoritarie) ci va per rabbia e disperazione. La casa non è un bene voluttuario. Si può dissentire dalle modalità con cui si cerca di procurarsela (molti se la sono fatta abusivamente con la complice latitanza dello stato), ma è difficile condannare l’umanissimo diritto ad essere insofferenti e disperati se la propria famiglia è priva di un tetto. E la disperazione – specie se inascoltata – non produce eleganti manifestazioni di galateo. Il saccheggio di Roma.  Gli ultimi a mettere a sacco la nostra capitale furono nel 1527 i Lanzichenecchi, gente un po’ irsuta, che una casa, in Germania, ce l’aveva: la loro preoccupazione non era quella di procurarsene una nuova, ma di distruggere quelle che c’erano. E lo fecero. E fecero ben altro. Molto più modesto il bottino dei moderni Lanzichenecchi. Deplorevole ogni gesto vandalico, ogni vetrina rotta, ogni inconsulta aggressione. Ma è anche profondamente ipocrita pensare che una manifestazione abbia legittimità solo se non arreca alcun genere di fastidio, se passa col verde, se sfila in silenzio, se non urla la rabbia di chi non ha, se trascorre inosservata per non turbare lo shopping nelle gioiellerie. Tanto vale non farle le manifestazioni, se si crede che debbano essere sfilate di ombre cinesi, innocue nelle premesse e nelle conclusioni. Capisco assai di più il divieto assoluto a scendere in piazza che la farisaica tolleranza verso il nulla rappresentativo. Ma questo è solo un aspetto della vicenda denunciata da Alfano. «Chiuderò il centro storico di Roma alle manifestazioni, per preservarlo dai saccheggi» ha precisato perentoriamente il ministro. Non un divieto generico alle manifestazioni perturbatrici, ma un divieto circostanziato: il centro storico.

La minaccia di Alfano è rivelatrice di una mentalità classista (si può chiamarla diversamente?): dell’idea che esiste una fascia della popolazione che, per censo, merita quel rispetto e quella tutela che per una assai più ampia fascia non sono affatto necessari. E dunque: vietare il centro ai manifestanti, indirizzandone la vandalica attività verso le aree periferiche e subperiferiche. Cosa sono le periferie secondo una certa cultura di governo? Aree di disagio, di precaria urbanistica, di viabilità sommaria, di governabilità disattenta, di abitabilità trascurabile. Idea ottusa e incivile, ma ancora oggi largamente diffusa. Se il problema fosse quello di proteggere i beni artistico-cultural-archeologici, Alfano dovrebbe sapere che in poche città come Roma questo patrimonio è distribuito in modo assai poco classista su tutta l’area urbana e suburbana: chiese, monumenti e musei non sono affatto concentrati unicamente nella zona centrale. Ma poi, qualcuno ha notizia di marmi asportati dalle chiese, di quadri rubati ai musei, di bronzi prelevati dal Pantheon (a quelli ci aveva già pensato un papa, Urbano VIII, per farne dei cannoni)? No i “saccheggi” non hanno mai investito i tesori d’arte della capitale. I “saccheggi” hanno colpito le banche, i gioiellieri, i negozi di alta moda, i ristoranti di lusso, i mercanti di Rolex… Si chiama “centro storico”. Ci siamo capiti? E soprattutto, hanno capito i “saccheggiatori”? Lascino perdere la city, l’alta finanza, i menu da 200 euro, gli orafi esclusivi. Vadano a rompere le scatole (se proprio vogliono) alle trattorie di Trastevere, agli artigiani, ai discount, alle bigiotterie, ai mercatini di borgata… Quasi contemporaneamente ad Alfano, in un altro – e ben più solenne – luogo romano, si levava una voce dai toni e dagli accenti ben diversi: «È scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la voce appena si profila l’eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in vista di una maggiore giustizia sociale». Era la voce del predicatore pontificio Raniero Cantalamessa, incaricato dell’omelia prepasquale da papa Francesco. Ed è proprio questo aspetto a rendere ragguardevoli quelle parole. Cantalemessa non usava espressioni soavi: «Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?». A cosa non spingi i cuori degli uomini, o esecranda fame dell’oro? Esecranda fame dell’oro!

La celebre invettiva virgiliana, spesso evocata a sproposito o per moralismo di maniera, costituiva il nerbo di una omelia di rara efficacia. «Chi è, nei fatti, l’altro padrone, l’anti-Dio, ce lo dice chiaramente Gesù: ‘Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a Mammona”». Sentire sotto la volta di San Pietro esecrare “il dio danaro” è singolare. Davvero, questo pontificato di Francesco ha qualche segno di grossa novità, se il predicatore pontificio conclude la omelia del Venerdì Santo con una condanna dell’adorazione del danaro (Mammona, all’uso biblico) che ha qualche suggestivo richiamo alla predicazione pauperistica dei “fraticelli”. Gli argomenti non sono nuovi (“denaro idolo falso e bugiardo, radice di tutti i mali…”), ma l’autorevolezza della sede in cui sono stati esposti e il tono della denuncia ne rendono impossibile una lettura non politica, quasi un intervento diretto nel dibattito, attualissimo, sul prezzo da pagare per uscire dalla crisi.  Il ministro dell’Interno e il predicatore pontificio: due voci distanti, ma convergenti. Il tema della ricchezza (Mammona) lega in contraddizione i due interventi. Una ricchezza da proteggere e una ricchezza mal distribuita; una ricchezza simbolo di un potere che si vuole autoconservare e una ricchezza che frena, nella sua spietata disuguaglianza, le aspirazioni ad una società più giusta. Le parole del predicatore pontificio suonano più convincenti e anche più rassicuranti delle parole del ministro di Mammona. Piero Pantucci

Chi scende in piazza per il diritto alla casa, se togliamo le inevitabili presenze provocatorie (minoritarie, ma spesso tanto violente da riuscire a far saltare gli obiettivi di una civile manifestazione), ci va per rabbia e disperazione. La casa non è un bene voluttuario. Si può dissentire dalle modalità con cui si cerca di procurarsela (molti se la sono fatta abusivamente con la complice latitanza dello Stato), ma è difficile condannare l’umanissimo diritto ad essere insofferenti e disperati se la propria famiglia è priva di un tetto. Il saccheggio di Roma. Gli ultimi a mettere a sacco la nostra capitale furono nel 1527 i Lanzichenecchi, gente un po’ irsuta, che una casa, in Germania, ce l’aveva: la loro preoccupazione non era quella di procurarsene una nuova, ma di distruggere quelle che c’erano. E lo fecero. E fecero ben altro. Molto più modesto il bottino dei moderni Lanzichenecchi. Deplorevole ogni gesto vandalico, ogni vetrina rotta, ogni inconsulta aggressione. Ma è anche profondamente ipocrita pensare che una manifestazione abbia legittimità solo se non arreca alcun genere di fastidio, se passa col verde, se sfila in silenzio, se non urla la rabbia di chi non ha, se trascorre inosservata per non turbare lo shopping nelle gioiellerie. Tanto vale non farle le manifestazioni, se si crede che debbano essere sfilate di ombre cinesi, innocue nelle premesse e nelle conclusioni (il che, sia chiaro, non significa legittimare atteggiamenti aggressivi, da guerriglia urbana). Capisco assai di più il divieto assoluto a scendere in piazza che la farisaica tolleranza verso il nulla rappresentativo. Ma questo è solo un aspetto della vicenda denunciata da Alfano. «Chiuderò il centro storico di Roma alle manifestazioni, per preservarlo dai saccheggi» ha precisato perentoriamente il ministro. Non un divieto generico alle manifestazioni perturbatrici, ma un divieto circostanziato: il centro storico. La minaccia di Alfano è rivelatrice di una mentalità classista (si può chiamarla diversamente?): dell’idea che esiste una fascia della popolazione che, per censo, merita quel rispetto e quella tutela che per una assai più ampia fascia non sono affatto necessari. E dunque: vietare il centro ai manifestanti, indirizzandone la vandalica attività verso le aree periferiche e subperiferiche. Cosa sono le periferie secondo una certa cultura di governo? Aree di disagio, di precaria urbanistica, viabilità sommaria, governabilità disattenta, abitabilità trascurabile. Idea ottusa, ma ancora oggi largamente diffusa. Se il problema fosse quello di proteggere i beni artistico-cultural-archeologici, Alfano dovrebbe sapere che in poche città come Roma questo patrimonio è distribuito in modo assai poco classista su tutta l’area urbana e suburbana: chiese, monumenti e musei non sono affatto concentrati unicamente nella zona centrale. Ma poi, qualcuno ha notizia di marmi asportati dalle chiese, di quadri rubati ai musei, di bronzi prelevati dal Pantheon (a quelli ci aveva già pensato un papa, Urbano VIII, per farne dei cannoni)? No i “saccheggi” non hanno mai investito i tesori d’arte della capitale. I “saccheggi” hanno colpito le banche, i gioiellieri, i negozi di alta moda, i ristoranti di lusso, i mercanti di Rolex… Si chiama “centro storico”. Ci siamo capiti? E soprattutto, hanno capito i “saccheggiatori”? Lascino perdere la city, l’alta finanza, i menu da 200 euro, gli orafi esclusivi. Vadano a rompere le scatole (se proprio vogliono) alle trattorie di Trastevere, agli artigiani, ai discount, alle bigiotterie, ai mercatini di borgata… Quasi contemporaneamente ad Alfano, in un altro – e ben più solenne – luogo romano, si levava una voce dai toni e dagli accenti ben diversi: «È scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la voce appena si profila l’eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in vista di una maggiore giustizia sociale». Era la voce del predicatore pontificio Raniero Cantalamessa, incaricato dell’omelia prepasquale da papa Francesco. Ed è proprio questo aspetto a rendere ragguardevoli quelle parole. Raniero Cantalemessa non usava espressioni soavi: «Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?». A cosa non spingi i cuori degli uomini, o esecranda fame dell’oro? Esecranda fame dell’oro! La celebre invettiva virgiliana, spesso evocata a sproposito o per moralismo di maniera, costituiva il nerbo di una omelia di rara efficacia. «Chi è, nei fatti, l’altro padrone, l’anti-Dio, ce lo dice chiaramente Gesù: ‘Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a Mammona”». Sentire sotto la volta di San Pietro esecrare “il dio danaro” è singolare. Davvero, questo pontificato di Francesco ha qualche segno di grossa novità, se il predicatore pontificio conclude la omelia del Venerdì Santo con una condanna dell’adorazione del danaro (Mammona, all’uso biblico) che ha qualche suggestivo richiamo alla predicazione pauperistica dei “fraticelli”. Gli argomenti non sono nuovi (“denaro idolo falso e bugiardo, radice di tutti i mali…”), ma l’autorevolezza della sede in cui sono stati esposti e il tono della denuncia ne rendono impossibile una lettura non politica, quasi un intervento diretto nel dibattito, attualissimo, sul prezzo da pagare per uscire dalla crisi.  Il ministro dell’Interno e il predicatore pontificio: due voci distanti, ma convergenti. Il tema della ricchezza (Mammona) lega in contraddizione i due interventi. Una ricchezza da proteggere e una ricchezza mal distribuita; una ricchezza simbolo di un potere che si vuole autoconservare e una ricchezza che frena, nella sua spietata disuguaglianza, le aspirazioni ad una società più giusta. Le parole del predicatore pontificio suonano più convincenti e anche più rassicuranti delle parole del ministro di Mammona.

Piero Pantucci

 

Laureata in Scienze dei Beni Culturali, blogger appassionata di cinema e teatro, talentuosa grafica e webmaster, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e sfide, forte della sua estrazione umanista veste con grazia e competenza le testate digitali e su carta di Milanosud.

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