Il prestigio nazionale perduto. Dal caso Regeni ai Marò fino al bunga bunga

Ci sono molte cose inaccettabili nel caso Regeni. La prima è che un ricercatore italiano venga sequestrato, torturato e trucidato senz’altra colpa che quella di essere giovane, serio e affamato di verità. La seconda è

Ci sono molte cose inaccettabili nel caso Regeni. La prima è che un ricercatore italiano venga sequestrato, torturato e trucidato senz’altra colpa che quella di essere giovane, serio e affamato di verità. La seconda è che di questo assassinio il governo egiziano cerchi deliberatamente di coprire le responsabilità politiche e neghi una seria collaborazione all’accertamento della verità. La terza (e conseguente) è che risulti visibilmente leso il rispetto che un governo (che si considera “amico”) deve al nostro paese. Questo aspetto è particolarmente odioso e attiene a quel tema che, con linguaggio forse retorico, si può chiamare prestigio nazionale. L’espressione sarà retorica, ma il problema non è affatto secondario. È questione di sostanza, soprattutto in una fase storica caratterizzata da vasti rivolgimenti geopolitici e dalla ridefinizione di ruoli, alleanze, spazi commerciali.

Spieghiamoci con qualche esempio. Un paese a cui si sequestrano per quattro anni due militari (Girone e Latorre) senza che venga avviato uno straccio di procedimento giudiziario, gode di scarso prestigio. Ed è ciò che l’India sta facendo con noi.

Un paese al quale si racconta che Giulio Regeni è morto in un incidente stradale, poi che è stato vittima di un regolamento di conti, poi che era coinvolto nel traffico della droga, poiche era in un giro di torbide amicizie e altre analoghe, insultanti sciocchezze non gode di grande prestigio. Ed è ciò che l’Egitto si permette di fare, ostacolando per giunta l’opera degli inquirenti inviati dall’Italia.

D’altra parte, il prestigio non è uno slogan pubblicitario. Non basta rivendicare un giorno sì e l’altro pure, come Renzi (giustamente) sta facendo, che l’Italia è un grande paese. Bisogna anche esserlo. E la nostra storia, soprattutto quella recente, è di segno decisamente contrario.

Avrebbero consentito, in Francia o in Germania (ma credo anche in molti altri paesi) che un imam fosse catturato e impacchettato in pieno centro metropolitano (caso di Abu Omar, a Milano, nel 2003, per chi se lo fosse dimenticato) da un folto manipolo di agenti della Cia, all’insaputa o sotto gli occhi complici delle autorità italiane?

E avrebbero consentito che l’uccisione di un eccellente funzionario dello stato come Calipari fosse archiviata senza alcuna punizione per il colpevole (un militare americano)? Eppure a noi è successo, nel 2005, e basterà ricordare quello che affermò l’ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, secondo cui il rapporto italiano, almeno nella parte in cui definiva l’omicidio Calipari come non intenzionale, «fosse stato appositamente costruito per impedire ulteriori inchieste della magistratura, ed evitare che la vicenda danneggiasse i rapporti bilaterali Italia-Usa». Questo deve essere ricordato perché è da atti di vassallaggio come questi che il prestigio nazionale esce con le ossa rotte.

Non sorprende dunque che i governanti che erano all’opera in quegli anni siano poi stati gli stessi che nell’estate del 2011 scrissero sotto dettatura l’umiliante lettera autopunitiva in cui veniva imperiosamente scritta la ricetta economica per uscire dalla crisi. Che è come quando a scuola la maestra fa scrivere cento volte agli alunni meno dotati “io sono un asino”.

BungaBungaQueste cose vanno ricordate, quando si ironizza su Renzi che batte i pugni sul tavolo. Ed è giusto ironizzare, perché uno il prestigio se lo deve conquistare fattualmente. Ma risalire la china non è facile. Peraltro, restando in ambito europeo, se nei giorni scorsi il presidente della commissione europea Juncker è venuto a Roma a colloquio con Renzi non è stato per un formale scambio di cortesie, anche perché Juncker di viaggi di questo genere non ne fa molti; ma perché si riconosce che, toni polemici a parte, la richiesta italiana di cambiare le linee economiche (flessibilità e vincoli di bilancio) e sociali (problema dei migranti) dell’Unione Europea è fondata e non la si liquida solo con qualche rapportino tecnico delle commissioni di Bruxelles.

Ma c’è dell’altro. Dalle recenti rivelazioni su Wikileaks si è appreso che nel corso del 2011 (ultimo anno del suo governo) Berlusconi fu insistentemente intercettato telefonicamente da una agenzia governativa statunitense (National Security Agency). E tutto lascia credere che lo spionaggio telefonico americano non si sia limitato a quel periodo. Ma atteniamoci ai fatti. E i fatti sono una intollerabile ingerenza nelle vicende interne italiane: l’arbitrio di una potenza che sente, che sa di poter disporre controlli e interferenze a proprio uso e consumo, senza alcun rispetto dell’autonomia e della personalità giuridica dell’intercettato. Insomma, stiamo parlando di prestigio.

Lasciamo perdere, per amor di serietà, le ridevoli proteste dei dirigenti di Forza Italia, che iscrivono la Cia nel complotto planetario (ordito da Napolitano ma ramificato in ogni angolo del globo) per rovesciare il governo Berlusconi, che stava crollando sotto il peso di una crisi interna incontrollabile. Lasciamo perdere la sindrome del complotto. Qualunque debolezza interna non giustifica in alcun modo lo spionaggio da parte di una potenza straniera. E amica, per soprammercato.

Negli scorsi anni si era accertato che analoga forma di “controllo”, gli Usa avevano esercitato anche nei confronti di Merkel e Sarkozy. E di ciò Obama si è formalmente scusato. Analoga forma di rispetto è dovuta all’Italia, al suo governo, sia esso presieduto da Berlusconi o da Monti o da Renzi.

Piero Pantucci

Illustrazione: Franco Portinari

(Marzo 2016)

Giornalista dello scorso millennio, appassionato di politica, cronaca locale e libri, rincorre l’attualità nella titanica impresa di darle un senso e farla conoscere, convinto che senza informazione non c’è democrazia, consapevole che, comunque, il senso alla vita sta quasi tutto nella continua rincorsa. Nonostante questo è il direttore “responsabile”.

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