Il Western, il più “americano” e antico dei generi cinematografici

Per più di una generazione l'incontro con il cinema (ma forse con l’America) ha necessariamente un nome, il Western. La prima sala era quella dell’oratorio, dove si mettevano rigorosamente al bando generi cinematografici che potessero

Per più di una generazione l’incontro con il cinema (ma forse con l’America) ha necessariamente un nome, il Western. La prima sala era quella dell’oratorio, dove si mettevano rigorosamente al bando generi cinematografici che potessero turbare la delicata fase puberale dei giovani spettatori. La scelta era obbligatoria, grandi praterie, solcate dai cavalli di indiani e cowboys (per noi cauboi). Unica alternativa erano le comiche. Stanlio e Ollio soprattutto, poco Chaplin, niente fratelli Marx, sospetti fin dal nome.

Senza averne coscienza stavamo viaggiando in sintonia con la storia stessa del cinema. Il primo grande successo della settima arte era stato un Western, The great robbery, undici intensi minuti che narravano l’assalto di un gruppo di banditi a un treno che sembrava quello dei fratelli Lumière. Hollywood non era ancora nata, l’industria del cinema stava ancora ad est, stretta fra New York e Chicago, dominata dal monopolio di Thomas Edison, quello della lampadina.

Con l’arrivo in California il Western trovava il suo habitat naturale, un eden di laghi e fiumi, deserti e foreste, montagne innevate. Gli stessi americani scoprivano paesaggi anche a loro sconosciuti. E noi con loro viaggiavamo nel favoloso ovest. I primi divi erano veri uomini del west, abili a cavalcare e lanciare il lazo. Mandriani arricchitisi a Hollywood come Buck Rogers e Tom Mix. Ma sarebbe stato il passaggio dal muto al sonoro a nobilitare il genere. Attraverso il Western gli americani scoprivano o reinventavano la loro storia. Cercando di lasciarsi alle spalle l’idea di un paese ancora lacerato da una guerra civile, spaventosa sì, ma limitata all’est civilizzato.

Gli anni della guerra di secessione, l’ecatombe di giovani vite perdute nel sanguinoso conflitto fra abolizionisti del nord e schiavisti del sud trovano scarso spazio nella narrazione hollywoodiana. Ad ovest c’era un’America intatta dove ritrovare l’unità smarrita. Ad ovest poteva nascere l’eroe americano in lotta con un nemico ‘altro’. Fosse l’indiano, la cui figura sarebbe stata rivalutata solo alla fine dell’epopea western. O la natura, rigogliosa e magnifica ma spesso ostile. Di quella terra selvaggia l’eroe spostava i confini un po’ più in là.

La conquista del West era un lento ma inarrestabile cammino che partiva da un piccolo ranch tirato su con fatica in mezzo al deserto. Il treno si faceva inesorabilmente strada insieme alle mandrie di bestiame che arrivavano da Wichita. E allora via con gli scontri coi pellerossa urlanti, i passaggi spericolati tra le rapide di fiumi insidiosi, gli inverni di neve sulle Montagne rocciose e la sete torrida della Valle della Morte. Anche nelle città, poco più che quattro case attorno all’onnipresente saloon, valeva la legge del west, una pistola veloce aveva spesso la meglio su una stella di sceriffo.

Sapevamo poco di armi ma non potevamo non conoscere la Colt e il Winchester. Era tutta la storia di un paese che improvvisamente si snodava davanti a occhi e menti che spesso ignoravano la nostra. Pochi ricordano i generali Lamarmora o Cialdini protagonisti del patrio risorgimento ma molti conoscono il generale Houston che eroicamente difendeva Fort Alamo a fianco di Davy Crockett. E il generale Custer, sconfitto a Little Big Horn dalle forze per una volta unite di Cavallo Pazzo e Toro Seduto (per i più raffinati Tatanka Yotanka e Tashunka Uitko) e poi Billy the Kid e Pat Garrett, Calamity Jane e William Cody, per gli amici Buffalo Bill.

Ben lontani dai dagherrotipi seppiati di fine ottocento avevano gli affascinanti volti dei divi di Hollywood. Nessuno sfuggiva a un ruolo di eroe del west, da Gary Cooper a Henry Fonda, da Kirk Douglas a James Stewart a Burt Lancaster (ch’era incredibilmente riuscito ad essere anche indiano). Ma due sono i nomi che hanno perpetuato la leggenda del western. John Ford dietro la macchina da presa e John Wayne sullo schermo. Un binomio indissolubile, fin dal primo grande capolavoro. Forse il più famoso western della storia. Ombre rosse. Che a ben vedere è qualcosa di più di un western.

C’è l‘affresco dell’America tutta in quei sette personaggi-simbolo, dal banchiere corrotto al giocatore d’azzardo che sa redimersi, c’è il tema del vigliacco e dell’eroe, il mito-rito della seconda possibilità data a ciascuno di noi, qui il bandito Ringo e la prostituta Dallas, c’è l’amore tutto americano per il viaggio, la lotta contro l’infido nemico esterno e la difesa della casa-patria.

Forse allora non eravamo in grado di capire tutto questo. Ma ci bastavano i paesaggi maestosi della Monument Valley, le montagne di pietra rossa dove presto sarebbero apparsi gli indiani, la carrozza caracollante che si ferma a lato della strada, che è poi solo una pista di terriccio, c’è un giovane uomo dinoccolato che aspetta. La macchina da presa va su di lui, lo sguardo disincantato che mischia cinismo e innocenza, un dolore dietro le spalle e la speranza davanti a sé. A fine avventura avrà il suo premio.

A John Wayne abbiamo perdonato una decadenza senile che lo avrebbe portato a imbarazzanti posizioni nell’America di Nixon. Per noi sarà sempre l’eroe del west, il comandante delle giacche azzurre della trilogia a cavallo, lo sceriffo stanco di un Dollaro d’onore, l’implacabile cacciatore di indiani di sentieri selvaggi, l’indomito Grinta del suo tramonto fino all’ultimo pistolero, dove ormai minato da un male incurabile dava l’addio al west e alla vita. Sarà sempre Ringo che va verso un nuovo destino insieme alla sua Dallas. Go to the west, young man.

 

Bibliotecario approdato finalmente alla pensione cerco di coltivare e condividere con maldestri tentativi di scrittura le mie mille passioni. Dalla letteratura allo sport, dalla storia alla musica, tutto con la stessa onnivora curiosità inversamente proporzionale alla competenza. Al primo posto l'amore per il cinema, nato a sei anni dalla folgorazione in una sala buia e mai più abbandonato.

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