In ricordo di Ettore Scola, regista politico per eccellenza

In tempi di antipolitica militante, mi piace esaltare in Ettore Scola il regista politico per eccellenza.

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Una scena del film “C’eravamo tanto amati”, con Stefano Satta Flores, Alessandro Gassman e Nino Manfredi.

In tempi di antipolitica militante, mi piace esaltare in Ettore Scola il regista politico per eccellenza. Sì, politico: il regista che in quasi mezzo secolo di cinema ci ha raccontato un’Italia politica, cioè un’Italia vera: perché il suo tratto magistrale era quello di mostrarci ciò che la politica è veramente (è stata e tuttora è o potrebbe essere): esercizio civile, passione per idee che ci fanno sentire parte di una comunità.

Nelle asprezze, negli eccessi e nelle debolezze, ma sempre distante da toni propagandistici o seccamente didascalici. Molti registi, animati dallo stesso umore politico (Citto Maselli, per fare il nome di un pur validissimo cineasta) hanno battuto strade analoghe, ma non hanno saputo come Scola coniugare il senso dello spettacolo (insomma l’abilità narrativa propria dei grandi romanzieri) e l’impegno civile, la riflessione e la commedia umana. Perché questo equilibrio fra cifre stilistiche apparentemente distanti è proprio solo degli artisti. Scola lo era. Era un regista che aveva fatto il suo tirocinio sceneggiando parecchio negli anni Cinquanta: aveva ricavato da quelle esperienze la capacità di addomesticare la propria passione politica (Scola non ha mai fatto mistero di essere un comunista) in un gusto narrativo che riconosceva e faceva propri i pregi della commedia all’italiana, anche nelle sue versioni meno raffinate (che uno dei peggiori film di Totò, “Totò nella luna”, sia stato co-sceneggiato da Scola ci fa capire quanto utile ma anche faticoso sia stato quell’apprendistato).

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Ettore Scola e Nino Manfredi sul set del film “Brutti, sporchi e cattivi”.

Poi, dopo aver a lungo prestato ad Alberto Sordi il brio di sceneggiature ruspanti, prese la strada della regia, in una direzione diversa da quella dell’Albertone nazionale, che continuò a rappresentare – gradevolissimamente sia chiaro – l’italiano arraffone e arruffone, opportunista, incoerente, disponibile: quell’italiano – stigmatizzato da Nanni Moretti – che ci piace sentire autenticamente rappresentativo del carattere nazionale, mentre è soltanto il divertente alibi per giustificare le nostre furbastrerie. Anche Scola ci ha raccontato l’Italia e gli italiani, ma senza limitarsi ai cachinni e alla risata grassa. Divertente e profondo, serio e ammiccante: solo i grandi maestri della commedia all’italiana ci sono riusciti prima di lui. Certamente Monicelli, in parte Dino Risi. Ma Scola si è spinto più in là, non ha avuto timore di affrontare direttamente i grandi temi politici, vivendoli attraverso le vicissitudini di protagonisti veri, non all’interno del palazzo, ma nella quotidianità delle speranze, delle miserie, delle paure e delle passioni della gente comune, piccoli ma veri protagonisti di un’Italia che camminava e che cambiava. Pensiamo a “La famiglia” (1987), ottanta anni di storia italiana (1906-1986) raccontati attraverso tre generazioni di una famiglia della media borghesia: molto più di un affresco perché in quel nucleo familiare (vario e sfaccettato) si ritrovano tutti i capitoli della nostra più recente storia. Senza proclami, senza cadute pamphlettistiche, senza eroismi, senza bandiere al vento: c’è in questa lunga saga familiare il meglio e il peggio del nostro Novecento. Per questo è una storia autenticamente, credibilmente politica.

Come autenticamente politico (e stavolta in modo più diretto) è “C’eravamo tanto amati”, film col quale nel 1974 Ettore Scola si impose definitivamente. Le tre Italie dei tre protagonisti (l’irriducibile comunista Manfredi, l’extraparlamentare Satta Flores e il socialista corrivo Gassman) scaturiscono tutte e tre dalla Resistenza, si misurano, con varia fortuna, fra di loro e con gli eventi di una società in cerca di una nuova identità, si ritrovano, a metà degli anni Settanta, alle soglie di profonde trasformazioni sulle quali si interrogano senza trovare una risposta (memorabile il dibattito finale fra Manfredi e Satta Flores sul significato di “boh!”). E politico è infine il capolavoro assoluto, “Una giornata particolare” (1977), che ci descrive, con assoluta fedeltà storica ma con elevato senso dello spettacolo contemporaneamente (è questo il tocco dei veri maestri) ciò che il fascismo è stato realmente negli anni del consenso come fanatismo popolare, e insieme la condizione ancillare della donna italiana (domestica, fattrice, mediocremente scolarizzata), la discriminazione dei “diversi”, la pervasività di un sistema totalitario. Questa è la politica che Scola ha saputo raccontare, così distante dal politicantismo del palazzo come dal qualunquismo di chi rinuncia a vivere nei valori.

Piero Pantucci

(Febbraio 2016)

Giornalista dello scorso millennio, appassionato di politica, cronaca locale e libri, rincorre l’attualità nella titanica impresa di darle un senso e farla conoscere, convinto che senza informazione non c’è democrazia, consapevole che, comunque, il senso alla vita sta quasi tutto nella continua rincorsa. Nonostante questo è il direttore “responsabile”.

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