Incisoria Fojadelli: di padre in figlio, storia di una passione «La forza del nostro rapporto è stata un’intensa complicità»

La storia dell’incisoria Fojadelli affonda le sue radici nella Milano dei primi anni ’40. A darle vita è Remo Fojadelli, che all’età di 11 anni intraprende il suo percorso di apprendista nella bottega di un

La storia dell’incisoria Fojadelli affonda le sue radici nella Milano dei primi anni ’40. A darle vita è Remo Fojadelli, che all’età di 11 anni intraprende il suo percorso di apprendista nella bottega di un maestro dell’incisoria a mano.

A causa dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il laboratorio è raso al suolo, obbligandolo a sospendere il suo apprendistato. Alla fine del conflitto, Remo riesce – seppure con fatica e sacrificio – a riprendere l’attività, dando alla luce nel 1945 quella che oggi è l’incisoria Fojadelli.

Negli anni Remo acquisisce sempre maggiore esperienza nel campo, diversificando tecniche e ambiti di applicazione. Le sue prestazioni spaziano dagli stampi per oro a caldo, al traforo di lastre in prezioso, e ancora alla realizzazione di cliché per sartoria e cartotecnica, l’uso di fili di taglio e timbri per etichetta.

A partire dalla seconda metà degli anni ’50 l’innovazione tecnologica imprime ulteriore spinta all’evoluzione della sua produzione, senza intaccare il suo spirito creativo. A raccogliere l’inestimabile eredità dell’arte di Remo è il figlio Felice Fojadelli, da sempre affascinato dall’arte della manualità, che entra giovanissimo nel laboratorio del padre, prendendone il posto a capo dell’azienda nel 1992, per quella che diventerà la passione della sua vita.

Felice, come è nata questa passione?

«È stata la naturale conseguenza della mia predisposizione al disegno e al lavoro manuale. Dall’unione delle mie doti e dalla curiosità per la professione di mio padre è nata la mia passione».

Tuo padre è stato il tuo maestro, come è stato per voi lavorare fianco a fianco?

 «Come penso sia normale, il gap generazionale ci ha portato a scontrarci in alcune occasioni, nondimeno la forza del nostro rapporto è stata un’intensa complicità. Mio padre mi ha sempre lasciato grande libertà, non mi ha mai relegato a una visione tradizionalista della professione. La tradizione mi è stata insegnata con passione, ed è su questa che baso le mie fondamenta, ma non mi ci sono mai fossilizzato».

Qual è l’oggetto del laboratorio a cui sei più affezionato?

«Ce ne sono parecchi, ma quello a cui tengo maggiormente è il ritratto di mia madre, inciso a mano da un collega».

Sei stato allievo, ti piacerebbe insegnare a tua volta?

«Mi piacerebbe, sì, ma non ne ho la possibilità. È difficile, sia economicamente che dal punto di vista burocratico. Per avere un allievo si devono rispettare norme di sicurezza sull’uso dei macchinari che sono estremamente limitanti; anche la pressione fiscale è notevole. Inoltre, non riceverei alcun incentivo per la formazione che offrirei. Purtroppo senza le nuove leve le realtà come la mia sono destinate a scomparire lentamente».

Credi davvero che l’artigianato sia destinato a scomparire?

«Credo che il problema sia culturale. Viviamo in un’epoca in cui tutto è prodotto in serie, un oggetto rovinato viene immediatamente gettato e sostituito, non siamo più abituati ad adoperarci per ripararlo, dargli nuova vita. Il cambio di mentalità è in atto ormai da decenni e non sono sicuro si possa invertire questa tendenza».

La poesia “Gu vutant’an”

L’estro di Remo Fojadelli è impetuoso e arriva persino all’ambito della poesia: ecco un suo componimento, scrigno della sua dedizione.

Gu vutant’ann
Sessantan de unestà
Passiun e vuluntà
E tant laurà.
Ades che suun vècc
E suddisfà
Me resta la nustalgia
De tucc i an passàa.
Ah cume vuraria rifà
Quel che u semper fa
Ghè che
Se stu minga pussè che butunà
Le facil che vaga prima al mund de là”.

Fabiana Garofalo

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