INTERVISTA a Gino Vignali sul suo nuovo giallo “I milanesi si innamorano il sabato”, un omaggio al grande Scerbanenco
«Caro Gino, mi hai tirato un bello scherzo questa estate», gli dico mentre saliamo la scala che conduce al terzo piano dove c’è lo studio-pensatoio con la libreria alta sei metri, la sola collezione completa dei gialli Mondadori ne
«Caro Gino, mi hai tirato un bello scherzo questa estate», gli dico mentre saliamo la scala che conduce al terzo piano dove c’è lo studio-pensatoio con la libreria alta sei metri, la sola collezione completa dei gialli Mondadori ne occupa un paio, e il gagliardetto dell’Inter è disseminato ovunque, tra foto giovanili della premiata ditta Gino&Michele, vignette, locandine di spettacoli “Passati col rosso”, appese sulle pareti e che ci narrano una vita fatta di lavoro, amicizia, risate e battute. Lui rimane un attimo immobile, lo sguardo perplesso di chi non capisce bene dove la sua interlocutrice voglia andare a parare con questi discorsi. Spiego: «Il tuo ultimo romanzo giallo mi è sembrato un libro perfetto da portare in vacanza e leggere sotto l’ombrellone. Contavo di finirlo in una settimana. L’ho letto tutto di un fiato in meno di due giorni. E quel finale così brillantemente spiazzante: quando crediamo che finalmente sia tutto chiaro, rimette tutto in gioco».
Lui (lo avrete capito) è il Gino della celeberrima coppia Gino & Michele (nella foto sotto) che ha attraversato da protagonista la storia comica e satirica dell’Italia degli ultimi 50 anni. Milanesi, si sono conosciuti da adolescenti, nel 1970 formano il gruppo musicale di cabaret I Bachi da sera, con cui si esibiscono al Refettorio, gloriosa cantina di cabaret, in via San Maurilio, il locale di Roberto Brivio anima dei Gufi. Poi il debutto dai microfoni di Radio Popolare, tra i fondatori del cabaret Zelig, e dell’omonima trasmissione televisiva, editori della mitica agenda Smemoranda e di un libro cult per tutti gli amanti della battuta, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano. Lui, il suo cursus honorum (Gino Vignali ricopre anche la carica di consigliere di amministrazione di Anteo S.p.A) lo riassume in una battuta: «Sono un bocconiano in gita premio da 50 anni nella comicità».
Sulla soglia dei 68 (anni), in solitaria Gino Vignali si è messo a scrivere romanzi gialli, sfornando un libro all’anno e costruendo una serie che potrebbe avere una seconda vita televisiva (esordisce nel 2018 con “La chiave di tutto” a cui sono seguiti, in crescente successo, Ci vuole orecchio, 2019, La notte rosa, 2019 e Come la grandine, 2021). Chiusa la sua tetralogia riminese adesso è in libreria con I milanesi si innamorano il sabato (sempre per l’editore Solferino). Un poliziesco pieno di ironia, che ha l’obbiettivo dichiarato di divertire il lettore, senza per questo rinunciare alla tensione e ai colpi di scena.
Il libro è ambientato sulle sponde del Lago di Como. Con un nuovo protagonista, il pignolo commissario Giovanni Armani che è stato trasferito da Milano alla Questura lariana, affiancato dall’affascinante vicequestore Costanza Confalonieri Bonnet, già presente nella saga riminese. La storia ruota attorno alla morte della trentaduenne serba Mikaela Stefanovic, amministratrice di Villa Romanoff, una lussuosa beauty farm per vip. Viene ritrovata nuda e con la cintura di un accappatoio attorno al collo, ma non è detto sia stata strangolata. L’indagine va a mischiarsi con una segretissima operazione sul traffico di stupefacenti tra i Balcani e il Centro Europa. Ma attenzione: è una storia in cui quasi niente è come sembra. I colpi di scena si susseguiranno sino all’ultima pagina.
Gino con l’inseprabile amico e socio Michele, a una partita di calcio con la squadra di Smemoranda.
Partiamo dal titolo: I milanesi si innamorano il sabato. È un omaggio a Giorgio Scerbanenco?
«Non potevo scrivere un giallo senza passare, prima o poi, da un maestro. I milanesi ammazzano al sabato (perché gli altri giorni lavorano) uscì nel 1969, è il classico per definizione della letteratura gialla milanese. Scerbanenco ha saputo raccontare, senza abbellimenti, senza sconti, ma con un ferreo senso morale, una Milano fine anni Sessanta, che stava diventando la capitale del Boom economico, ma piena di marcio e sofferenze, dove le vite borghesi hanno più di un lato oscuro tra bordelli d’alto bordo in austeri palazzi ottocenteschi. È una Milano dove dare del terrone a qualcuno offende ma è ancora consuetudine».
La vena comica, tu invece non la perdi mai, anche nel giallo… Quanto l’ironia può entrare nel giallo? Esiste un limite?
«Il dosaggio non è pianificabile, lascio che l’ironia sorga spontanea e che si autoregoli. In fondo, è quello che facciamo normalmente nella vita: alle 3.05 ridi e alle 3.10 sei malinconico. Credo che si formi una sorta di ritmo tra questi due estremi solo apparenti: sono due registri che si compenetrano nell’unicità della vita. Io sono un comico, non potevo smettere di esserlo dopo quarant’anni. Per cui è possibile che mi sia lasciato un pochino più andare».
Come è entrato il giallo nella sua vita?
«Devo l’imprinting del giallo a mio padre, perché lui portava a casa tutti i gialli Mondadori, li comperava in edicola, e io ho cominciato a leggerli prendendo quelli che lui mi passava».
Com’è nata l’avventura di scrittore in giallo?
«È nato tutto nel marzo 2017, io e Michele avevamo chiuso Zelig a dicembre dopo 20 anni. Avevo quindi un sacco di tempo libero e mi sono interrogato sul da farsi: potevo fare il pensionato e iniziare a guardare i cantieri con le mani dietro la schiena, come fanno gli Umarell, controllando, facendo domande, consigli indesiderati ai lavoratori (Vignali si lascia andare in una risata – NdR). Dopo di che ho detto: sì bello, rilassante, tranquillo però forse c’è di meglio. Chissà se sarei ancora capace di scrivere un giallo. Sono un appassionato, praticamente li leggo tutti. Ho trovato una vecchia rubrica del telefono della Moleskine e mi sono messo a scrivere a mano. Io la scaletta non ce l’avevo. Avevo solo una suggestione, forse due. La prima riguardava l’ambientazione: doveva essere Rimini raccontata in quattro stagioni. E che la protagonista doveva essere una investigatrice donna».
Da te profondamente milanese ci saremmo aspettati di essere trascinati in un giallo dentro la Milano della moda, il design, gli affari, quelli puliti e quelli sporchi…
«Milano è troppo affollata di giallisti e non mi lascerò mettere nei guai facendo dei nomi, Rimini era ancora libera, nel senso che a nessuno era ancora venuto in mente di ambientare una serie gialli. Poi perché la conosco molto bene: mia mamma era di Rimini, tre o quattro mesi all’anno li passavo dai nonni. Ho perfino preso casa, secondo me la più bella di Rimini. Però la protagonista, Il vice questore Costanza Confalonieri Bonnet a capo della squadra mobile di Rimini, l’ho voluta milanesissima, arguta e tosta. Come non bastasse, bellissima».
Il tuo secondo giallo riminese l’hai intitolato Ci vuole orecchio. Ed è anche il titolo di canzone che tu e Michele avete scritto con Jannacci.
«Era il 1980. Ci ha portato molta fortuna: io e Michele eravamo abbastanza giovani e questa canzone ci ha aperto un sacco di porte. Di tutti quelli che hanno fatto artisticamente grande Milano, Jannacci mi manca di più. Michele e io siamo cresciuti con Jannacci! Era uno che ti guardava e ti diceva: “Ma secondo te le scale mobili dove vanno a finire?”. Una cosa così quando hai 25 anni, ti rimane dentro».
Citando un vostro celebre libro, Anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano. Per cosa si incazza oggi Gino Vignali?
«Anche le formiche, nel loro piccolo, invecchiano, si rassegnano, non si incazzano più (pausa – NdR). In verità, credo di non essere il solo a provare sconcerto per le varie forme di imbarbarimento delle relazioni sociali cresciute negli ultimi anni. Maleducazione, prepotenza, indifferenza verso gli altri. Ignoranza. Il pericolo non è essere ignoranti, ma non avere la consapevolezza di esserlo. Dobbiamo combattere questa nuova forma di ignoranza. Mai come in questo momento storico, nel quale siamo bombardati dalle informazioni. Ma avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente. Insomma, ritorniamo a dubitare. A interrogarci con noi stessi quando siamo troppo convinti di essere dalla parte della verità, e non riusciamo ad ascoltare le ragioni degli altri».