La Milano che piace a me: Intervista Gino Vignali (della coppia Gino&Michele) «Ridere è un atto rivoluzionario, apre la porta verso territori inesplorati»
Ha attraversato da protagonista la storia comica e satirica dell’Italia degli ultimi 50 anni. Stiamo parlando di Gino Vignali, il Gino della celeberrima coppia Gino & Michele. Milanesi, si sono conosciuti da adolescenti, nel 1970
Ha attraversato da protagonista la storia comica e satirica dell’Italia degli ultimi 50 anni. Stiamo parlando di Gino Vignali, il Gino della celeberrima coppia Gino & Michele. Milanesi, si sono conosciuti da adolescenti, nel 1970 formano il gruppo musicale di cabaret I Bachi da sera, con cui si esibiscono al Refettorio, gloriosa cantina di cabaret, in via San Maurilio, il locale di Roberto Brivio anima dei Gufi.
Poi il debutto dai microfoni di Radio Popolare, tra i fondatori del cabaret Zelig, (2012,edizione televisiva di Zelig. Da sinistra. Giancarlo Bozzo, PaolaCortellesi, Claudio Bisio, Michele e Gino e dell’omonima trasmissione televisiva), editori della mitica agenda Smemoranda e di un libro cult per tutti gli amanti della battuta, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano.
Lui, il suo cursus honorum (Gino Vignali ricopre anche la carica di consigliere di amministrazione di Anteo S.p.A) lo riassume in una battuta: «Sono un bocconiano in gita premio da 50 anni nella comicità». Sulla soglia dei 68 anni, in solitaria, Gino Vignali si è messo a scrivere romanzi gialli, sfornando un libro all’anno e costruendo una serie che potrebbe avere una seconda vita televisiva (esordisce nel 2018 con “La chiave di tutto” a cui sono seguiti, in crescente successo, Ci vuole orecchio, 2019, La notte rosa, 2019 e Come la grandine, 2021). Chiusa la sua tetralogia riminese adesso è in libreria con I milanesi si innamorano il sabato (sempre per l’editore Solferino).
Un poliziesco pieno di ironia, che ha l’obbiettivo dichiarato di divertire il lettore, senza per questo rinunciare alla tensione e ai colpi di scena. Con un nuovo protagonista, il pignolo commissario Giovanni Armani che è stato trasferito da Milano alla Questura lariana, affiancato dall’affascinante vicequestore Costanza Confalonieri Bonnet, già presente nella saga riminese. In uno dei tuoi libri della tetralogia riminese scrivi: “Rimini è il casello dell’autostrada che collega la realtà e la fantasia”.
E Milano?
«È un ponte solido e strutturato che collega i sogni con la terraferma, quando lo attraversi il sogno diventa un progetto».
Qual è il tuo luogo milanese del cuore?
«E me lo chiedi? Naviglio Martesana, numero civico 140 di viale Monza. Zelig è nato qui, il 12 maggio 1986. Il cabaret Zelig, prende forma nei locali del vecchio Circolo cooperativo di Unità Proletaria. Era un localaccio, sembrava quasi una latteria di Budapest, come la definì con affetto e ironia il regista Almodòvar venendoci a trovare, ma era un cabaret vero, secondo la tradizione milanese: 200 posti pigiati. Sul palco di Zelig sono venuti tutti: Paolo Rossi, Claudio Bisio, Antonio Albanese, Gene Gnocchi, Aldo Giovanni e Giacomo, Cornacchione, Maurizio Milani, Paolo Migone, Bebo Storti, Renato Sarti, Antonio Catania, Gigio Alberti, Bertolino, per limitarci a quelli della prima generazione. E dopo dieci anni di vita entusiasmante siamo riusciti a portare Zelig in televisione, su Italia1».
Cosa ti fa ridere?
«Tutto. Non sono assolutamente uno snob della risata. Non ho preclusioni. Non ci sono battute intelligenti o stupide. Se fa ridere, funziona».
Al nono mese di guerra, che inclina pericolosamente vero l’escalation nucleare… Perché mai si dovrebbe ridere in tempi così?
«Vero, la risata latita, si è appannata, ce la concediamo sempre meno e spesso la deleghiamo alla faccina di un emoji. Invece dovremmo lasciarci andare perché la risata è liberatoria. Ridere è un atto rivoluzionario, apre la porta verso territori inesplorati. Se, come sosteneva Victor Hugo, “la libertà comincia dall’ironia”, Milano è stata spesso una città libera. Se c’è una cosa di cui essere orgogliosi è di far parte della comicità milanese, la più innovativa d’Italia. Sì, proprio così, Milano si è dovuta inventare una lingua comica, uno stile che non è legato al dialetto ma all’uso delle parole, alle invenzioni, al non-sense. La comicità milanese è reinvenzione creativa, vedi Dario Fo, Cochi e Renato, Enzo Jannacci. A proposito di Jannacci: era uno che ti guardava e ti diceva: “Ma secondo te le scale mobili dove vanno a finire?».
Un selfie ricordo dove lo scatteresti?
«Al campetto di calcio a 7 della Parrocchia Madonna della Medaglia Miracolosa. Venne a inaugurarlo l’allora cardinal Montini, che poi sarebbe diventato papa Paolo VI il 29 settembre 1962. Un campo in erba naturale, mica di cemento. Giocavo nel ruolo di terzino. L’estasi della gioia fanciullesca allo stato puro. Appartengo alla generazione di quelli venuti su grazie agli oratori che all’epoca erano all’avanguardia, perché i primi a mettere a disposizione dei piccoli campi da calcio».
Super interista da sempre.
«Critico e scontento ma passionale».
La follia che hai fatto per la “Beneamata”?
«Andata e ritorno in giornata a Madrid il 22 maggio 2010 per la finale Champions League, al Santiago Bernabeu. L’Inter torna a vincere la Champions League a distanza di 45 anni. I nerazzurri battono il Bayern Monaco per 2 a 0 grazie a una doppietta di Diego Milito. Impresa mai riuscita a una squadra italiana, quella di vincere in una sola stagione campionato, Coppa Italia e Champions League/Coppa dei Campioni (e Gino Vignali si alza e mostra il gagliardetto originale “bellissimo e raro” appeso al muro – NdR)».
Cosa ti manca della Milano del passato?
«Un po’ di nostalgia del passato c’è, perché ero giovane. Ma non c’è dubbio: Milano è meglio adesso. Adesso e una città di cui essere orgogliosi. Passeggiando per qualunque strada, parco o piazza si vedono persone di etnie diverse e sicuramente si respira un’aria internazionale. Firenze, Roma o Venezia hanno (avevano, ora ce la giochiamo) cento volte i turisti che raggiungono Milano, con la differenza che da noi entrano in sintonia, mentre altrove il turista passa ma è come se non ci fosse, non c’è scambio».
Da umarell (mancato): il cantiere che ti entusiasma di più seguire?
«L’ambizioso piano di rigenerazione urbana dell’ex Scalo di Porta Romana. Una spianata di 200 mila metri quadrati, tra il cavalcavia di via Ripamonti e quello di corso Lodi. Negli anni, lo Scalo aveva assunto un ruolo di barriera, un elemento di frattura nel disegno della città. Qui sorgerà in prima battuta il Villaggio Olimpico che ospiterà gli atleti delle Olimpiadi Invernali del 2026, e riflette lo “spirito olimpico” di Milano. In un periodo così difficile, questo progetto rilancia la visione di una Milano che scommette sulle generazioni future. Al termine delle competizioni sarà trasformato in un campus residenziale per studenti. Proprio di fronte a Prada verrà realizzato un grande parco attorno al quale sorgeranno anche residenze, uffici e servizi. Sarà di fatto il nuovo quartiere “sostenibile” della città».
Qual è il tuo rapporto con il quartiere in cui vivi?
«Abito a due passi da piazzale Lodi, cap 20137, non è poi così male. Da qualche anno questa zona, in questo accavallarsi di ex edifici industriali, scali postali dismessi, sta vivendo una sorta di rinascita urbana e architettonica. A cominciare dagli spazi punteggiati dalla Fondazione Prada – un posto ideato per ospitare bellezza e regalarne altrettanta al quartiere circostante –. Finalmente il palazzo rimasto abbandonato per anni, di via Lattanzio all’incrocio con via Colletta, occupato e devastato dal vandalismo è stato ristrutturato, con la Metropolitana 3 che porta direttamente in piazza del Duomo in sette minuti. Quando ero ragazzo la città era il quartiere. Ricordo che per me andare in piazza del Duomo, e ci volevano allora quindici minuti in tram, era un evento eccezionale. Certo i negozietti alimentari sono spariti anche qui, la gente fa spesa alla Esselunga o alla Coop. In compenso c’è ancora Giacomino, dove vado a farmi barba e capelli, un barbiere di altri tempi, avrà più di 80 anni. C’è anche il teatro Oscar, ne è direttore artistico l’amico Giacomo Poretti (il Giacomo del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo – NdR). Milano corre, ma nei quartieri possiamo inventarci dei ritmi più umani e saggi. Non è impossibile. Sia chiaro, io da Milano non me ne vado»
Gino e Michele.