In cammino nella Milano nascosta, tra piazza Duomo e Chiaravalle

Un luogo si può attraversare in infiniti modi, è noto. E Milano non sfugge a questa meta metafora, esplorata da decine di filosofi e poeti. Ma forse i milanesi sono più monoesperenziali di altri e

sm07Un luogo si può attraversare in infiniti modi, è noto. E Milano non sfugge a questa meta metafora, esplorata da decine di filosofi e poeti. Ma forse i milanesi sono più monoesperenziali di altri e vivono la loro città riducendola a un spazio da fendere, velocemente, concentrati su “cose da fare” e influenzati da un immaginario sedimentato, che limita le “cose da vedere” a poche cartoline ingiallite, ormai risalenti al secolo scorso (La Scala, il Castello, Brera, i Navigli…). Un  atteggiamento miope, che riduce fatalmente le opportunità di conoscenza, la qualità della vita cittadina e le occasioni di stare insieme.

Si può destrutturare questa prospettiva, facendo emergere un modo diverso di vivere la città e l’idea stessa di turismo? Gianluca, Max e Gianni, ideatori di Sentieri Metropolitani ne sono convinti: Milano – e con essa ogni luogo – è una stratificazione di punti di vista ed eventi, da scoprire procedendo lentamente, all’insegna del motto “Le città si capiscono solo a piedi”.

Partendo da queste presupposti, i tre esploratori hanno individuato una rete di sentieri cittadini ed extracittadini di 355 km, in gran parte ormai percorsi, che una volta “camminati”, saranno resi disponibili a chiunque su web (sito, app e social) e su carta, completi di tutte le informazioni, per essere vissuti in gruppi organizzati o da soli.

Per la tracciatura del percorso #7, quello che da piazza Duomo porta a Chiaravalle, gli ideatori di Sentieri Metropolitani hanno anche coinvolto il sottoscritto, direttore di Milanosud, giornale custode del sud Milano che, pronto a esperire un nuovo sguardo, si è presentato puntuale alle 8,30 di una mattina estiva, sul sagrato di piazza Duomo. Pronto per tracciare un sentiero urbano, alla ricerca di ciò che di Milano non vediamo ma che c’è, e si nasconde.

Primo tratto: il centro dimenticato

Si parte da Torre Velasca, un edificio molto conosciuto. Il nome deriva dalla preesistente piazza Juan Fernández de Velasco, seicentesco governatore spagnolo di Milano, di cui le cronache ricordano soprattutto l’ossessione per le streghe. La sagoma della torre è nota a tutti i milanesi e oggetto di adorazione o di avversione. Qualunque sia il giudizio che si ha su questa torre di 106 metri, finita di costruire nel 1957, progettata dal famoso studio BBPR (lo stesso che pochi anni dopo progettò le sei Torri Bianche di Gratosoglio), di certo si tratta di un edificio da vedere, alzando lo sguardo il più possibile da sotto per coglierne l’imponenza e l’originalità del profilo.

Lasciata la Velasca, compiuti pochi passi risalendo per corso di Porta Romana, si passa accanto al Palazzo Acerbi, civico numero 6. Qui minuscola e nascosta sulla facciata del bel palazzo, a destra del portone, sotto al primo balconcino, c’è una palla di cannone, testimone delle Cinque Giornate di Milano. Accanto una quasi invisibile targa, che recita laconicamente: “20 MARZO 1848”, prima testimonianza che incontreremo del nostro Risorgimento. Proseguendo troveremo altre due targhe, in via delle Chiusa e in corso Italia, che ricordano il contributo dei finanzieri che «spontaneamente – racconta lo storico e letterato Cesare Cantù – si offersero alla causa comune. Sia onore a questa giovine squadra che costituita per immorali divieti, ora ha ottenuta tutta la simpatia della nostra fraternità, e sentì con che cuore gridavamo: i viva alla guardia di Finanza…».

Lasciato alle spalle Palazzo Acerbi, percorsa via Maddalena, si prende Corso Italia in direzione Sud. Pochi metri e, all’altezza di via Rugabella, sbuca la “chiglia” di un complesso edilizio di abitazioni e uffici progettato da Luigi Moretti, finito di costruire nel 1955. Un’architettura modernissima, realizzata all’indomani del conflitto mondiale, come la Torre Velasca sulle macerie della guerra, ma al contrario del grattacielo di BBPR, praticamente sconosciuto.

Da corso Italia si imbocca via Disciplini – un angolo di ‘800 milanese, con la strada che ancora rivela la tracciatura per le carrozze – e si percorre il dedalo di viuzze eleganti fino a Molino delle Armi. Qui, come dice il toponimo, lungo il Naviglio si trovavano molti mulini, il principale dei quali, appunto, destinato ad “arrotar armi”, arte nella quale i milanesi erano maestri sin dal Medio Evo. Superata la circonvallazione interna, alla fine di via Vettabbia (che prende il nome dalla roggia che da qui partiva e che rincontreremo spesso nel nostro percorso), si arriva a via Cosimo del Fante, strada elegante, con palazzi di pregio. Il più bello di tutti è forse Casa Venegoni, che si trova all’angolo. Un edificio in stile neogotico, costruito nel 1927, con una torretta loggiata che certo non passa inosservata. Nel cortile della casa, un pozzo trecentesco e la ricostruzione delle campate del portico del convento delle Dame Vergini della Vettabbia, antica istituzione risalente all’epoca comunale.

Proseguendo da Cosimo del Fante e ritornando in corso Italia, si scorge verso sud il Santuario di Santa Maria dei Miracoli presso San Celso, luogo dove furono trovati nel 396 i resti dei santi Nazzaro e Celso. Il primo fu trasportato nella Basilica San Nazzaro maggiore, nell’omonima piazza che si trova lungo corso di Porta Romana. San Celso invece rimase qui custodito in una piccola chiesa, dove Sant’Ambrogio fece realizzare una nicchia con un’immagine della Madonna. In questo luogo, divenuto poi basilica con convento, nel 1485 avvenne un miracolo. Durante un miserere, con la chiesa colma di fedeli, l’immagine della Madonna prese vita, guardò a uno a uno i presenti e porse loro il Bambino. Da quel momento la peste scomparve da Milano. Per celebrare l’evento miracoloso l’anno seguente iniziarono i lavori per la costruzione dell’attuale santuario. Il monastero, che sorgeva sulla destra della basilica, fu distrutto nell’’800 per fare spazio al santuario. Quasi identica sorte subì la basilica di San Celso, di cui ora rimangono solo un bel giardino, la facciata e una torre campanaria.

Secondo tratto: città universitaria e architetture

Passata la seconda cerchia milanese, all’altezza di Porta Ludovica si prende viale Bligny. Da qui inizia un percorso attraverso l’architettura contemporanea, che ci porterà fino oltre la circonvallazione esterna.

Dopo qualche decina di metri, all’angolo con via Roentgen,  appare il più recente edificio costruito dall’Università Bocconi, che ospita dipartimenti, centri ricerca e un’aula magna aperta alla città. Progettato dagli architetti irlandesi Shelley McNamara e Yvonne Farrell, inaugurato nel 2008, il complesso è composto da volumi che appaiono sospesi e da ampie vetrate che si alternano a facciate cieche.

Attraversato questo complesso, si arriva su piazza Sraffa, dove affacciano il pensionato degli studenti, progettato da Giovanni Muzio (1956), l’edificio della rettoria e la chiesa. Questi ultimi progettati entrambi all’inizio degli anni Sessanta da Ferdinando Reggiori. Verso via Bocconi si trovano poi l’edificio della Sda Bocconi (1986) realizzato da Vittore Ceretti e l’edificio ellittico ad aule (2000) progettato da Ignazio Gardella.

Proseguendo verso sud, dopo aver superato una lapide che ricorda gli studenti della Bocconi morti nella Grande Guerra, giunti sulla via Sarfatti, sulla destra troviamo l’edificio, disegnato da Muzio e dal figlio Lorenzo, che ospita l’aula magna, la biblioteca e alcuni istituti. Sempre sulla via Sarfatti, sulla sinistra, disegnata da Gian Giacomo Predeval e Giuseppe Pagano, ecco la sede principale dell’università. Si tratta di un complesso inaugurato nel 1941, considerato tra gli esempi italiani più importanti di architettura razionalista. I volumi degli edifici, ognuno realizzato sulla base delle funzioni e dopo uno studio attentissimo delle proporzioni, sono disposti nel lotto su uno schema cruciforme, in modo che tutti possano essere areati e illuminati nel migliore dei modi. All’epoca la progettazione del complesso si scontrò con la retorica monumentale fascista e la costruzione fu possibile solo perché appoggiata da Giovanni Gentile, filosofo e allora ministro del Fascio. Al progettista Giuseppe Pagano toccò una tragica sorte. Partigiano, morì a Mauthausen il 22 aprile del 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo. Stesso destino per l’architetto Gian Luigi Banfi, dello studio BBPR che progettò la Torre Velasca. Partigiano anch’egli, morì nello stesso campo solo pochi giorni prima: il 10 aprile del 1945.

Volgendo lo sguardo verso il Parco Ravizza, sull’angolo con via Bocconi, non si può non notare l’enorme maglio che ricorda la morte di Roberto Franceschi, studente bocconiano, militante del Movimento Studentesco. Nel 1973, a 21 anni, il giovane fu ucciso da una pallottola sparata dalla Polizia che, su richiesta del rettore, impediva a coloro che non facevano parte dell’ateneo l’ingresso a un’assemblea per la pace nel Vietnam.

Percorrendo via Sarfatti, lasciandosi alle spalle il monumento a Franceschi, sulla sinistra si trova l’ampia area della ex Centrale del latte. Qui, entro fine anno, inizieranno i lavori per la realizzazione del nuovo campus della Bocconi, progettato dallo studio Sanaa di Kazuyo Sejima e Ruye Nishizawaelle. Nell’area bonificata sorgeranno una torre residenziale per studenti e professori, la nuova sede della Sda Bocconi e un centro sportivo-ricreativo aperto al pubblico. L’architettura sarà completamente diversa dal resto degli edifici dell’Ateneo. Forme tondeggianti, edifici in parte trasparenti, zone verdi, colonnati e collegamenti tra le varie “celle” caratterizzeranno il nuovo complesso, i cui lavori termineranno nel 2019.

Usciti da via Sarfatti, tra via Caltelbarco, via Giambologna e viale Tibaldi, si trova un piccolo agglomerato urbano, una sorta di “triangolo isoscele” (guardando la mappa) composto da villette eleganti con giardino ed edifici d’epoca. Passeggiando tra le vie si subisce un effetto estraniante, perché si ha l’impressione di stare in un luogo di villeggiatura, che potrebbe essere la Riviera o l’Alto Adige. Quando poi si passa per via Ottolini, dove si incontrano due case con tetti spioventi, travi a legno a vista, balconcini e bifore con vetri colorati, che pare furono costruite da un importatore di pianoforti tedesco pieno di nostalgia verso i luoghi natii, la sensazione di stare in un paese del nord Europa è fortissima.

Tornati sulla via Castelbarco, prima di attraversare la circonvallazione, in un testacoda  tipico del migliore spirito meneghino, si trova l’edificio di Pane quotidiano. Proprio accanto al futuro campus della Bocconi, che accoglierà i migliori (e agiati) studenti del mondo, l’onlus fondata nel 1898 accoglie decine di migliaia di persone in difficoltà, dando loro da mangiare, gratuitamente e ogni giorno, secondo il motto “Fratello… qui nessuno ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni…”.

Terza parte: dalla città verso la campagna

Superata via Tibaldi e con essa la terza cerchia milanese, presa via Bazzi e oltrepassata la massicciata dell’anello ferroviario Milano-Mortara, si entra nell’area cittadina “che una volta era tutta campagna e fabbriche”. Sulla sinistra, dove c’era l’OM (Officine Meccaniche), fabbrica protagonista del boom economico italiano e delle lotte operaie, ora c’è un parco delle Rimembranze industriali, disegnato dal famoso studio Land srl. Accanto, adiacente a via Bazzi, scorre la Roggia Vettabbia, che qui riemerge. Il parco, che all’interno ospita il grande carroponte della OM, è un incompiuto. Trascurato nel verde, soffre del mancato collegamento nord-sud con il parco Ravizza, che era una delle principali qualità del progetto originario.

Aldilà del parco, verso sud, c’è il quartiere Spadolini, attraversato dall’omonima via che collega via Bazzi a via Ripamonti. Qui spiccano alcuni interventi architettonici di qualità, sia pure in un disegno urbanistico un po’ scontato. Tra questi segnaliamo le due torri residenziali di 15 piani, progettate dallo studio Fuksas, con le facciate rivestite di pietra dorata e ardesia, simbolo del nuovo quartiere; le due corti di Valentino Benati, con i grandi balconi vegetali degradanti verso il parco; il grande edificio commerciale di Esselunga di Ignazio Gardella e il nuovo pensionato della Bocconi (Residenza Dubini).

Dietro il quartiere Spadolini, sulla destra dalla Roggia Vettabbia, c’è il vecchio quartiere popolare Morivione, che prende il nome dall’omonima cascina con annessa cappella, che si trova al civico 5 di via Corrado II il Salico. Il nome del borgo sembra risalire alla morte, nel 1336, del terribile brigante Vione Squilletti, catturato e giustiziato probabilmente da Azzone Visconti, intervenuto su richiesta degli abitanti. Nel luogo dell’uccisione venne posata una pietra, su cui era scritto “Qui morì Vione”, da cui il nome della località. Una seconda traccia dell’antichità del borgo si trova poco distante. Si tratta del Glicine di Leonardo, sito in via Verro numero 2, nel cortile dell’antica cooperativa operaia e di consumo Morivione. Sembra che sotto questa monumentale pianta, forse la più vecchia di Lombardia, che conta oltre 700 anni e ha radici di oltre 2 km, il genio di Vinci si incontrasse con Ludovico il Moro per discutere di come rendere navigabili i Navigli, progettando la Conca Fallata in via Chiesa Rossa, sul Naviglio Pavese. Storia però messa in dubbio da alcuni botanici, che sostengono che il glicine entrò in Europa solo dopo la scoperta dell’America. Tesi contestata da altri studiosi, che invece ritengono che la specie possa essere arrivata dalla Cina, percorrendo la Via della Seta.

Proseguendo per via Verro e poi per la via Campazzino, dopo averne percorso un primo tratto, poco prima di giungere alla via Virgilio Ferrari, moderna bretella a sei corsie, si può arrivare al borgo di Castellazzo, il cui nome pare derivi da “Castello di Azzo” in quanto Azzo Visconti detto anche Azzone, signore di Milano dal 1330 al 1339, vi avrebbe posseduto un fortilizio. Il borgo è caratterizzato da un quattrocentesco ponticello che scavalca il Cavo Ticinello. Qui si trovava anche il Convento dei Girolamini, di cui rimane la foresteria adibita prima a osteria e ora a ristorante. Vale la pena ricordare un aneddoto piccante di questo monastero e dei suoi frati, un po’… vivaci. Alcune voci ancora in circolazione vogliono infatti che i monaci esigessero dalle nubende delle vicine frazioni di Morivione e Vigentino che queste trascorressero una notte con loro prima delle nozze (una sorta di “ius primae noctis”, insomma); in caso contrario, venivano murate vive…

Se invece di andare al Castellazzo e dal Glicine di Leonardo si torna all’inizio di via Verro, si può imboccare la via Corrado II il Salico e percorrerla tutta seguendo la Vettabbia, fino a sbucare il via Ripamonti. Sul lato opposto dell’Esselunga, dietro a Ripamonti, costeggiando lo Scalo Romana, si arriva in largo Isarco, dove è stata recentemente inaugurata una nuova sede delle  Fondazione Prada (la prima importante sede si trova a Venezia, sul Canal Grande). La prestigiosa istituzione ha eletto “a propria casa” una ex distilleria d’inizio Novecento, ridisegnata dallo studio Oma di Rem Koolhas. Sette edifici recuperati e tre realizzati ex novo, che integrano perfettamente volumi e vuoti, materiali modernissimi e strutture d’epoca, e che ora ospitano spazi per mostre temporanee, per le collezioni della griffe milanese, uno spazio polivalente per cinema e spettacoli, uno per bambini e, a breve, una rivoluzionaria biblioteca.

Se si prosegue di andare alla Fondazione si continua verso sud per via Ripamonti, nel tratto tra le vie Serio e Rutilia, sulla sinistra si presenta una piccola appendice. Una strada senza uscita, che segue una diramazione della roggia fino a un edificio, risalente probabilmente al XVII secolo, che una volta ospitava un antico mulino, denominato Mulino Vettabbia Destra, proprio perché mosso dall’acqua di questo ramo della roggia. All’ingresso del piccolo complesso rurale – che ora ospita uno studio di architettura e delle abitazioni – su una vecchia targa si legge a malapena l’antica ripartizione amministrativa: “VIII Mandamento, comparto di Porta Romana”.

Tornati sulla Ripamonti si prosegue fino a viale Ortles, che si incrocia sulla sinistra. Imboccato il viale, qualche centinaio di metri più in là, all’incrocio con via Condino, riemerge la Roggia Vettabbia, che qui riassorbe la deviazione per il Mulino. Percorsa ancora un po’ di strada verso est si incontra la Casa Jannacci, che ospita i senza tetto di Milano e una serie di attività per l’accoglienza e il reinserimento di chi è in difficoltà.

Quarta parte: il Parco Sud e Chiaravalle

Ritornati sulla via Ripamonti si prosegue verso sud, il direzione Chiaravalle. Giunti in via dell’Assunta la si imbocca. Subito si scorge la chiesa Santa Maria dell’Assunta, sulla piazza omonima. Dove ora si trova l’edificio religioso nel 1167 venne costruita una cappelletta, che poi divenne chiesa. Nel XIV secolo i frati che abitavano la frazione di Castellazzo – gli stessi dello Jus primae noctis di cui abbiamo parlato – la ricostruirono e ampliarono. Nel Seicento la chiesa subì una profonda ristrutturazione architettonica (navata unica  ecc.) divenendo come ora appare. La chiesa è stata dichiarata “monumento nazionale”.

Proseguendo per via dell’Assunta si entra nei campi del Parco Sud. Da qui le strade per Chiaravalle sono diverse. Se si prosegue per via dell’Assunta, come abbiamo fatto noi, si arriva fino a un piccolo parco urbano, che dà sulla via San Dionigi.

Qui sulla sinistra si può scorgere “El Signurun de Milan”, una grande statua di Cristo benedicente (ma senza una mano) che saluta i pellegrini che dall’Abbazia di Chiaravalle entrano in Milano. L’origine di questa statua, sebbene relativamente, recente è ignota. Secondo una leggenda apparve miracolosamente dalle acque della Roggia Vettabbia, che prima di essere interrata scorreva proprio qui.

Proseguendo sulla via San Dionigi lasciandosi alle spalle il Signurun, dopo aver passato un piccola edicola che ricorda quatto martiri (Mario Casiroli, Romeo Grisetti, Ambrogio Salvaneschi ed Enrico Sangalli) che all’indomani dell’8 settembre ’43 vennero fucilati per rappresaglia dai tedeschi, si giunge a una rotonda su cui affaccia la Chiesetta paleocristiana dei Santi Filippo e Giacomo di Nosedo. Negli edifici dell’antica cascina accanto ha sede la cooperativa sociale Nocetum – il toponimo indica l’antica presenza in questi luoghi di un bosco di noci – che accoglie mamme in difficoltà e un piccolo mercato equosolidale. Nel 2013 nella chiesetta sono stati rinvenuti resti di sepolture medievali e romane di età augustea. Tra i ritrovamenti più toccanti, considerata anche l’attuale destinazione del complesso, i resti molto ben conservati di una madre con un bambino di pochi mesi accanto.

Riprendendo la via San Dionigi, sulla destra, si apre il Parco della Vettabbia, una grande area verde nata a compensazione del depuratore di Nosedo, luogo ideale per percorsi in bici e sgambate a piedi, attualmente interessato da opere di forestazione. Attraversato il parco finalmente si arriva all’antico borgo di Chiaravalle, dove ha sede l’omonima Abbazia.

Il complesso monacale è un luogo di grande spiritualità. Realizzato nel 1135 (data riportata in una iscrizione posta sopra la porta di collegamento tra la chiesa abbaziale e il chiostro alla sua destra) per volere di San Bernardo di Clairvaux, l’Abbazia ospita una comunità di una ventina di monaci. Al suo interno si trovano splendidi affreschi del Trecento e un imponente coro ligneo in noce, realizzato nel Seicento da artigiani milanesi, che contiene 39 stalli e pannelli che raccontano la vita di San Bernardo. Sulla scala che porta al dormitorio all’interno dell’Abbazia, la bellissima Madonna della Buonanotte, realizzata nel Cinquecento da Bernardino Luini.

All’esterno del complesso, il bellissimo chiostro duecentesco e la famosa torre nolare, che i milanesi chiamano affettuosamente della Ciribiriciaccola, attribuita a Francesco Pecorari, architetto a cui si fa risalire anche la realizzazione della pressoché identica torre della Chiesa di san Gottardo, che si trova accanto al Duomo. Secondo alcuni, il curioso nome della torre di Chiaravalle deriva dal nome dei frati, detti, appunto, ciribiciaccolini. Altri studiosi ritengono invece sia da ricondurre alle 80 colonnine di marmo di candoglia – le ciribiriciaccole – che abbelliscono le monofore, bifore e quadrifore della torre. Una terza versione è quella per cui i ciribiciaccolini sarebbero i piccoli di una cicogna, che costruì il proprio nido sulla cima della torre. Versione quest’ultima che diede origine alla famosa filastrocca scioglilingua in milanese: “Sora del campanin de Ciaravall/ gh’è una ciribiciaccola/ Con cinquecentcinquantacinq ciribiciaccolitt…”.

Sempre all’interno del complesso monastico, prima di fermarsi per un meritato ristoro o nel piccolo negozio di souvenir, vale la pena visitare l’antico Mulino, risalente al Duecento, posto su una derivazione della Roggia Vettabbia. Attualmente l’acqua non arriva fin qui ma al termine dei lavori sull’omonimo parco e alla riattivazione dei corsi d’acqua, il Mulino riprenderà a funzionare. Ora è sede di una cooperativa sociale, Koinè, che svolge attività nell’ambito dei servizi alla persona. I lavori sul Mulino hanno consentito il restauro degli edifici e la riattivazione del sistema molitorio con finalità sia produttive che didattiche. È stato piantumato un orto dei semplici e allestita un’erboristeria didattica e, grazie alla presenza di un forno a legna, è possibile anche panificare.

Conclusioni

«Non sembra neanche di stare a Milano» e «Qui una volta era tutta campagna». Queste sono state le frasi che ci siamo ripetuti decine di volte, un po’ per scherzo e un po’ seriamente, durante il nostro Sentiero Metropolitano. Da piazza Duomno a Chiaravalle la città si è svelata ai nostri occhi con le sue bellezze e le sue contraddizioni, in cui degrado ed eccellenza convivono, mediati e vissuti dal brulicare continuo delle attività. È stato un modo nuovo per conoscere e per fare “turismo”, perché  «Il vero viaggio di scoperta – diceva il grande Marcel Proust che di viaggi se ne intendeva – non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi».

Per saperne più di Sentieri Metropolitani: www.sentierimetropolitani.org

Testi Stefano Ferri, foto Max Franceschini e Federica De Melis

Giornalista dello scorso millennio, appassionato di politica, cronaca locale e libri, rincorre l’attualità nella titanica impresa di darle un senso e farla conoscere, convinto che senza informazione non c’è democrazia, consapevole che, comunque, il senso alla vita sta quasi tutto nella continua rincorsa. Nonostante questo è il direttore “responsabile”.

Recensioni
1 COMMENTO
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    Franchina Giorgio 9 Settembre 2015

    Molto utile e interessante. Una Milano da vivere e pensare diversamente.

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