La sella di Bartali, ovvero l’incredibile storia romagnola di un comodo sellino donato al grande Gino
I ciclisti professionisti non appartenevano a un mondo elitario e inaccessibile. Poteva capitare che le vite dei campioni si intrecciassero con quelle della gente comune (incidentalmente padre e nonno di chi scrive). Come in questo
“Oh quanta strada nei miei sandali
quanta ne avrà fatta Bartali
quel naso triste come una salita
quegli occhi allegri da italiano in gita
e i francesi ci rispettano
che le balle ancora gli girano
e tu mi fai dobbiamo andare al cine…
…e vai al cine vacci tu”.
In questa strofa di una famosa canzone di Paolo Conte è racchiusa l’Italia dell’immediato dopoguerra: un paese in ginocchio ma con la ferma volontà a rimontare in sella, non solo metaforicamente: Il sogno di molti giovani era infatti quello di diventare campioni di uno sport dove bastava una bicicletta per gareggiare, anche se il solo acquistarla richiedeva grandi sacrifici.
È il periodo d’oro del ciclismo italiano: le prime pagine della Gazzetta dello Sport sono spesso appannaggio delle imprese dei due inarrivabili campioni: Bartali, la cui carriera è stata infaustamente interrotta dalla guerra, e l’astro nascente Coppi.
La rivalità tra i due campioni non si limita all’ambito sportivo ma diviene metafora delle divisioni politiche e culturali del tempo. Nell’Italia di Don Camillo e di Peppone, Bartali finisce per incarnare l’anima cattolica del paese, mentre Fausto, forse in buona parte, a causa della storia d’amore extraconiugale con la cosiddetta “Dama Bianca”, quella laica e progressista.
La realtà è però meno romanzata di quella descritta da Giovannino Guareschi. Se ne ha prova durante il burrascoso 1948, culminato nell’attentato a Palmiro Togliatti. De Gasperi, preoccupatissimo per le sorti del paese telefona a Gino in lotta per la maglia gialla: «Caro Bartali, lei può fare molto per la nostra Italia. Pensa di poter vincere ancora il Tour?». Provvidenzialmente la vittoria arriva e l’entusiasmo generale è tale da stemperare gli animi e riportare la calma nel paese.
A quei tempi nel ciclismo vige ancora un certo grado di pionierismo: biciclette pesanti e strade polverose da percorrere spesso in assenza di tecnici, medici e massaggiatori al seguito. I ciclisti professionisti non appartengono ad un mondo elitario e inaccessibile. Può capitare così che le vite dei campioni si intreccino con quelle della gente comune: la storia seguente ne è un esempio.
Emilia – Romagna, primi anni ‘50
Giardino è una piccola frazione di Imola, “Iomla” in dialetto romagnolo (qui gli abitanti si sentono da sempre più romagnoli che emiliani); poche case sparse nella campagna della bassa imolese a pochi passi da “La Sterlina”, storica osteria (ancora attiva) il cui nome è legato ad un aneddoto che vide protagonista il Passator Cortese. Il bandito, fermato un gruppetto di invitati a un matrimonio con in testa gli sposi in biroccino, si rese conto che non possedevano nulla tranne lo sposo che calzava un paio di scarpe nuove. Il brigante se le fece consegnare (giusto per tenere fede alla sua fama) regalando in cambio alla sposa, tra lo stupore generale, una sterlina d’oro.
Su queste stradine di campagna si allena Dante Rivola, classe ’26, un buon passista dotato di spunto veloce la cui dote migliore è forse il carattere battagliero che lo ha fatto emergere tra i dilettanti. Dante ce l’ha fatta, è passato da poco tra i professionisti. Ora corre con la Bartali, la società di Gino, ormai a fine carriera. Gli anni e i chilometri percorsi si fanno sentire: lo stare tante ore in sella provoca al campione fastidi e dolori.
È una sera di inizio estate e a Sesto Imolese, altro paesino a un tiro di schioppo da Giardino, si corre una gara in notturna. Dante, sceso appositamente per assistere alla kermesse sportiva, scambia qualche parola con i giovani corridori che gli si fanno intorno per strappare un consiglio al ciclista ormai affermato. L’attenzione di Dante è però catturata da una bici da corsa, o per meglio dire, da un suo particolare: la sella, talmente lucida da riflettere la luce dei lampioni della piazza del paese.
«Di chi è quella bici?»
Un giovane corridore della S.C. Sesto Imolese si fa avanti: «È la mia, mi chiamo Gambetti Bruno».
«Di’ un po’, Bruno, quella sella è proprio così morbida come sembra?».
«Se non ci credi provala, ma fai presto che comincia la corsa».
Qualche pedalata intorno alla piazza ed ecco arrivare il responso di Dante in romagnolo stretto: «L’è Mej che es sidud sora na scarana» (meglio che stare seduti su una sedia).
Bruno ribatte con orgoglio: “È merito di mio babbo Ribello. Ha usato il grasso di cavallo. Un lavoro da maestro».
Dante va subito al sodo: «Questa sella sarebbe perfetta per Gino».
Sulle prime Bruno è restio a cederla ma alla fine, dopo varie trattative, i due si accordano per uno scambio. La contropartita è di quelle a cui è difficile dire di no: una leggendaria Brooks, nuova di pacca.
Bruno è mio padre e Ribello mio nonno, quella raccontata è la storia della sua sella o per meglio dire della sella di Bartali. Anche se non venimmo mai a sapere se Bartali la utilizzò veramente in quel suo ultimo scampolo di carriera, ciò che importa è che quella sera le vicende della nostra famiglia si intrecciarono con quelle del mito, lasciando una traccia, un ricordo, un’energia che ancora oggi ci si tramanda di padre in figlio. La consapevolezza di essere entrati a contatto con un campione che ha scritto pagine sportive leggendarie, in un’epoca in cui il ciclismo rappresentava una perfetta metafora della vita: faticosa, irta di ostacoli e tutta da costruire proprio come le interminabili e massacranti tappe di montagna in cui si poteva contare solo su sé stessi, sulla propria forza fisica e interiore. Quel ”Non mollare mai fino alla fine” che ci ha lasciato in dote Felice Gimondi, l’ultimo grande testimone di quel ciclismo epico, semplice e umile. Un insegnamento prezioso che vale in sella alle due ruote quanto nella vita.