La testimonianza shock di Tina Monaco: «In Regione si sono dimenticati di noi “reduci” del coronavirus»
Il 29 maggio dello scorso anno, nell’ambito del “Premio Rosa Camuna”, Tina Monaco aveva ricevuto un Premio Speciale, dal Presidente della Regione Lombardia, “Per l’impegno dedicato alla riqualificazione sociale, culturale e ambientale del quartiere Aler
Il 29 maggio dello scorso anno, nell’ambito del “Premio Rosa Camuna”, Tina Monaco aveva ricevuto un Premio Speciale, dal Presidente della Regione Lombardia, “Per l’impegno dedicato alla riqualificazione sociale, culturale e ambientale del quartiere Aler di via Russoli nella periferia milanese. Le iniziative promosse con l’Associazione “Coltivare la città” hanno contribuito ad abbattere le disuguaglianze sociali e a contrastare l’isolamento e il degrado del quartiere”.
Ironia della sorte, a distanza di un anno da quell’evento felice, la situazione si è capovolta. Tina si rivolge alla Regione che l’ha premiata (e ancora non ha erogato i fondi per completare la riqualificazione del: le 4 Torri Aler di via Russoli) da ex malata di Covid-19. E non può che adottare toni aspri.
«Si sono dimenticati di tutti noi “reduci” del Coronavirus che per mesi e mesi dovremo proseguire con questa sofferenza. Io spero solo una cosa, che le autorità di Regione Lombardia, che hanno sbagliato e dicono di riuscire a dormire sonni tranquilli e sereni perché si sentono la coscienza a posto, paghino personalmente per tutto il male che hanno fatto».
Come ti sei ammalata?
«Ho iniziato a star male a marzo e ho avvisato subito il mio medico di base, il quale si è attenuto alle disposizioni ricevute – parole sue – di tenere i malati a domicilio, per cui sono rimasta a casa finché non ho avuto problemi seri: facevo fatica a respirare e finalmente il medico è venuto a controllarmi e allora ha chiamato l’ambulanza, che mi ha portato al S. Paolo».
Al San Paolo com’è andata?
«La mia permanenza in ospedale è iniziata intorno al 21 di marzo, la data esatta non la ricordo, e sono stata dimessa il 21 aprile. Non è stato facile vivere con una persona che ti muore accanto e vederla portar via. Avere inizialmente una maschera per l’ossigeno che è una tortura e poi, poiché si sono resi conto che non era sufficiente, essere trasferita in terapia intensiva, dove ho vissuto praticamente un mese con casco-sondino-catetere e flebo».
Cosa significa stare in terapia intensiva?
«Non potersi muovere dal letto è una sofferenza indescrivibile, e non sai per quanto tempo potrai campare. E poi un dolore pazzesco per te e i familiari, che forse non potrai mai più incontrare. Io non ho visto nessuno per un mese e mezzo. A ogni bollettino medico, la preoccupazione e l’ansia dei miei figli cresceva: i medici e gli infermieri sono stati bravissimi, ogni giorno telefonavano ai miei per dire come stavo e descrivere le mie condizioni che non sempre erano belle».
Poi la quarantena all’Hotel Michelangelo
«Non è stata una cosa semplice neanche quella. Ci vuole una bella dose di forza, coraggio, nervi saldi per stare chiusa più di 20 giorni in una stanza d’albergo lunga 10 passi, non vedere mai nessuno e dover guardare da una finestra che dà su un cortile interno e una scala antincendio. Gli unici occhi che sono riuscita a incrociare, in tutto questo periodo, sono stati quelli del personale medico che veniva a controllarmi temperatura e ossigeno. Non ho visto altro fino all’11 maggio».
Ora come stai?
«Mi sento molto debole fisicamente e psicologicamente: devo rimanere sempre distesa sul divano, riesco a prepararmi da mangiare, ma devo pagare una persona che viene a farmi le pulizie e a portarmi la spesa. I miei figli, che lavorano, mi fanno uscire di tanto in tanto, quattro passi nel parco vicino a casa. Mi hanno anche portato alla Darsena per un caffè ma mi sento subito stanca. Prima avevo i miei nipotini, adesso sono sola. Comunque continuo per quello che posso a rimanere impegnata col “Gruppo lesciure & lachicca” dove, prima della pandemia, si organizzavano eventi musicali e culturali. Anche questo mese di giugno è uscito il giornalino delle Sciure anche con pubblicato un mio articolo sui progetti dell’Associazione coltivare la città. Cerco di ricominciare ma mi mancano i rapporti sociali».
Secondo te, cos’abbiamo imparato dalla pandemia?
«Parlo per me, soprattutto di positivo ho imparato che si è riscoperta veramente la solidarietà, di negativo, quanta negligenza ci sia stata nel gestire l’epidemia e i malati. Quel ritornello continuo: dovete rimanere a casa, non andate al pronto soccorso, è stato un messaggio deleterio: un malato da solo non si può curare, a maggior ragione se i medici di base non escono. E poi, dopo le dimissioni, una volta tornata a casa, non c’è un’organizzazione, né qualcuno che ti possa supportare – ed è necessario perché non è facile riprendere la vita di tutti i giorni. Ma non perché stai male di testa, sono le forze fisiche per fare anche i piccoli lavori quotidiani che vengono a calare. Per fortuna ho i miei figli che mi aiutano, ma una persona che vive da sola non ce la può fare».
Cosa ti aspetti con la fase della riapertura?
«Le istituzioni, dal governo agli enti locali, è bene che incomincino a pensare a tutti quelli che si sono ammalati e ora devono affrontare il dopo, anche dando un aiuto economico per sostenere le spese impreviste del Covid-19, soprattutto a chi fatica ad arrivare alla fine del mese o ha la pensione minima. Mi aspetto che le persone siano molto più responsabili, attente, consapevoli dei disastri che possono ancora derivare dal contagio. È un nemico invisibile, basta un attimo».