Le lezioni dell’Aristarco Scannabue de la Repubblica

Far ripartire l’Italia utilizzando il “modello Genova”. Questo dicono in molti, alla luce della freschissima esperienza del ponte Piano, erede del defunto ponte Morandi. Che l’Italia debba ripartire, anzi risorgere da un collasso generale che si

Far ripartire l’Italia utilizzando il “modello Genova”. Questo dicono in molti, alla luce della freschissima esperienza del ponte Piano, erede del defunto ponte Morandi. Che l’Italia debba ripartire, anzi risorgere da un collasso generale che si chiama Coronavirus è drammaticamente urgente.

E tutti vediamo quanto l’impresa sia complicata, assai più che non erigere un ponte di 1.067 metri. In cosa il “modello Genova” costituisce un suggestivo paradigma? Nei tempi e nelle modalità di realizzazione. I tempi sono stati vertiginosamente brevi rispetto alle consolidate italiche lungaggini.

Crollato il 14 agosto 2018 (44 morti), il ponte ha iniziato a crescere (dopo pochi mesi di procedure preparatorie) il 22 marzo 2019 e lo scorso 12 maggio è stata ultimata l’ultima delle 19 campate. Il ponte è ultimato, anche se l’inaugurazione ufficiale avverrà in luglio. Tempi record, inediti per la storia delle infrastrutture italiane.

Modello Genova

E dunque, modello Genova da applicare sempre e comunque? 
Attenzione: eccezionale è il risultato, ma eccezionali sono anche le condizioni che lo hanno consentito.

Il modello Genova si fonda su un supercommissariamento (esercitato nella fattispecie dal sindaco Bucci), sulla deroga al codice degli appalti, senza gara per l’affidamento della realizzazione. Ottimo risultato. La vecchia burocrazia è sconfitta.

Ma l’estrema semplificazione burocratica agitata come un vessillo, è ben difficilmente replicabile, perché, a differenza di quanto è avvenuto per il ponte Piano, le centinaia di opere infrastrutturali in corso di attuazione o in attesa di esserlo, non godranno mai della stessa spasmodica attenzione (anche mediatica) che ha sicuramente fornito garanzia di correttezza, regolarità nonché efficienza operativa. Simbolo di rinascita ed esposizione mediatica: queste condizioni non potranno mai essere la regola. Quindi: la burocrazia va sicuramente combattuta e abbattuta nelle sue pesantezze, ma senza rinunciare a criteri di trasparenza e sana competizione negli appalti.

E modello Fiera

Ma il modello Genova non è il solo a richiamare su di sé l’attenzione. C’è anche il “modello Fiera” a caratterizzare il genio italico nell’esuberante voglia di fare.

Modello, in questo caso, assai poco esemplare.
 In affanno fin dai primi giorni della pandemia, per carenza di strutture sanitarie adeguate e virulenza quantitativa del contagio, la prestigiosa dirigenza lombarda (Fontana e Gallera in vetta), dopo la consueta (e non del tutto infondata) polemica contro il governo centrale, per dimostrarne l’inconsistenza e per esaltare la grandeur del sistema lombardo, hanno creato un ospedale, “modello Wuhan”, per la cura in terapia intensiva. Con la regia affidata al redivivo Bertolaso. “Abbiamo fatto in dieci giorni ciò che si fa in qualche anno” gongolava il presidente della Fondazione Fiera Pozzali. “La Lombardia modello per il paese” gli faceva eco Fontana.

Il caso Rsa

Costruito per ospitare 208 pazienti, ne ha avuti al massimo una dozzina. E oggi sono ridotti a poche unità. Comprensibile, anche se esibizionistico, il movente di questa iniziativa; pessima l’ostentazione di ostilità a Roma; miserevole il risultato. Il che ci fa dire che i 21 milioni di donazioni private che hanno sostenuto quasi per intero la spesa di questo ospedale-miracolo testimoniano una volta di più la generosità milanese, che però poteva e doveva essere investita in meno dilettantesche imprese.

E lasciamo perdere, per ora, la perlomeno discutibile gestione delle Rsa. A inchieste concluse, si vedrà quanto leggera, irresponsabile sia stata la conduzione di queste strutture.

È un problema che non riguarda la sola Lombardia, ma è in questa regione che si sono più manifestamente rivelate la trascuratezza e la sottovalutazione, che hanno certamente incrementato il tasso di mortalità degli anziani.

Ghe pensi mi

Il caso delle Rsa e del “ghe pensi mi” antigovernativo della Lombardia è stata la manifestazione più vistosa dell’anarchia operativa, con chiara matrice politica, che ha certamente contribuito a rallentare od ostacolare il percorso sanitario.
L’autonomismo regionale si è rivelato ostativo nei confronti di una politica sanitaria coordinata, e ha avuto anche espressioni apertamente avverse sul piano politico, come nel caso dello sconsiderato ribellismo della signora Santelli, presidentessa della Calabria, che è riuscita persino a ignorare le indicazioni dei propri consulenti scientifici prima che il Tar la richiamasse all’ordine.

Lezioni al governo

Il Coronavirus è stato ed è un bel terreno di prova della capacità di un governo di affrontare difficoltà enormi, non avendo campi di riferimento; di un popolo di muoversi non tanto con senso di disciplina, ma almeno con consapevolezza di beni e valori comuni; e dei mass-media di esercitare una funzione di critica e di stimolo con senso di responsabilità. Limitatamente a questo ultimo aspetto, diciamo che siamo stuccati e ristuccati dalla capacità che tutti – giornalisti, opinionisti, filosofi, economisti, psichiatri, novellieri, tuttologi – hanno di impartire quotidianamente lezioni al governo, elencandone gli impressionanti errori, i disastri epocali, le irrimediabili cadute.

Il campo di operatività del governo è tanto vasto e inedito che la fallibilità è normale, fisiologica: e che nazioni come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti stiano peggio di noi, pur avendo avuto più tempo per organizzarsi, non incrina la durezza corrosiva dei nostri Aristarchi Scannabue. Che stanno indifferentemente a destra, a sinistra, al centro.

Decreto fatto a pezzi

C’era una volta un quotidiano, la Repubblica, che veniva artatamente o arbitrariamente definito organo del governo, addirittura preordinato al governo secondo i più astuti esegeti.

Qualcosa deve essere cambiato, forse col cambio di direttore, se il Decreto Rilancio – quello dei 55 miliardi – viene fatto a pezzi da Repubblica, non tanto per il suo ritardo (pesantissimo), non tanto per la farraginosità del suo lessico (normale) o per la sua spropositata lunghezza; e neppure per il quantum che investe. Ma per il merito delle scelte effettuate: globalmente, senza scampoli di condiscendenza.

Le toppe di Rizzo

Non a caso a strapazzare il decreto è stato incaricato un giornalista, Sergio Rizzo, che si è costruito negli anni, prima in compagnia di Gian Antonio Stella, poi da solo, la fama di fustigatore della malapolitica: a partire da “La casta”, una collana di documentatissime denunce di corruzione, malaffare, nepotismi, insipienza, sprechi. Un genere giornalistico che ha fatto scuola, ha fatto business e ha anche fecondato la pianta dell’antipolitica.

Rizzo ridicolizza il decreto perché “contiene soltanto una sterminata serie di toppe: 256, quanti sono gli articoli”.
E cosa sono le toppe? Sono gli interventi, articolatamente previsti dal documento per ogni campo di sofferenza, dai contributi per i lavoratori autonomi, al blocco delle imposte, dalle badanti agli immigrati da regolarizzare, dal blocco dell’Irap alla revisione degli ex studi di settore, dai benzinai agli stabilimenti balneari. Eccetera. Rizzo le chiama toppe. Spregiativamente.

La piatiletka

Può essere che i singoli provvedimenti non siano sufficienti o che siano tardivi. Ma il problema è che affrontano problemi reali, sui quali giustamente è stato sollecitato l’intervento governativo. Ora l’intervento c’è (e sarà seguito anche dall’utilizzo di risorse europee). Non doveva forse il decreto indicare specificamente il merito dei singoli provvedimenti? Doveva stare sulle generali? Doveva limitarsi a dire: “Ecco, qua ci sono 55 miliardi, state buoni che col buonsenso li faremo arrivare dove è utile?”. O forse Rizzo preferiva 256 decreti, uno per titolo, tanto per rendere più spedito il procedimento?

E no, dice Rizzo (cioè la nuova Repubblica di Molinari), nel documento “non si intravede una strategia di sviluppo”. E che vuol dire? E basta con questo genere di vacuità! Per non sbagliare, quando si vuol attaccare una scelta politica si dice che manca di visione strategica, di un piano generale di sviluppo, di una strategia globale. Che vuol dire tutto e niente. Ma che, nella fattispecie, sembra invocare il ruolo di uno stato pianificatore, sulla falsariga della piatiletka (piano quinquennale) staliniana. Che sia la strada giusta, dopo decenni di liberismo a briglia sciolta?

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