M5S: l’onorevole Angelina, il girondino distratto e il semi-rivoluzionario
In politica non si parte mai da zero. Esistono sempre un prima, un durante e naturalmente un dopo. Che si tengono, ci piaccia o no: che vanno conosciuti e interpretati, ma non ignorati o rimossi.
In politica non si parte mai da zero. Esistono sempre un prima, un durante e naturalmente un dopo. Che si tengono, ci piaccia o no: che vanno conosciuti e interpretati, ma non ignorati o rimossi. Chi non lo capisce e, per presunzione o infantilismo, si considera l’alba della storia, commette un errore capitale. Ed è l’errore capitale che commette il movimento 5 Stelle. E che è all’origine dello sconquasso in scena a Roma, al Campidoglio, da alcune settimane.
Prima di noi il nulla
«A Roma non c’è mai stata opposizione: a Roma come in Italia prima dell’arrivo dei Cinque Stelle». Questa sentenza fu pronunciata l’11 ottobre dello scorso anno da Virginia Raggi, nel corso di una intervista multipla che Lucia Annunziata fece ai quattro consiglieri comunali grillini: Marcello De Vito, Virginia Raggi, Daniele Frongia, Enrico Stefano. Si stava profilando il disastro Marino, c’era curiosità attorno a questa pattuglia di giovani consiglieri del partito grillino, che tutti i sondaggi davano in forte crescita di consensi. Fra questi quattro ci sarà il nuovo sindaco, si pensava. E così fu. La “rete” grillina incoronò Virginia Raggi con 1764 voti contro i 1346 del capogruppo De Vito.
Partire da zero
In quelle parole (“prima dell’arrivo dei Cinque Stelle…”) c’è quasi tutto del credo grillino: partire da zero, sentirsi talmente antropologicamente diversi da rifondare la storia, negare possibili interlocuzioni con chiunque nasca da altre vicende politiche. L’ossessione della novità assoluta, della radicale alterità è una patologia che affligge anche politici avveduti. Ed è morbosamente esiziale per gli spiriti fanciulli. Che sono poi quelli che, per la loro estraneità al pragmatismo (inutilmente predicato dall’eretico sindaco di Parma Pizzarotti), inciampano più rovinosamente nei reticoli della quotidianità.
I mesi sprecati dalla Raggi
La parabola capitolina del partito grillino fa seriamente pensare. Non tanto per godere delle disavventure di chi ci ha frastornato con l’esaltazione della propria purezza, ma perché l’esperimento grillino incarna pur sempre un moto di rivolta contro la peggiore politica, ed il suo fallimento – questo è ciò che si teme – può dar corso a pericolose derive estremistiche.
Rischio elevato, a giudicare da quanto è avvenuto e sta avvenendo a Roma da tre mesi a questa parte.
Questa Virginia Raggi, frutto maturo della primavera grillina, diventata il 19 giugno sindaca della capitale con oltre il 67% dei consensi, aveva tutto il tempo e la possibilità di attrezzarsi per governare Roma con gli uomini e gli strumenti che poteva scegliersi libera da condizionamenti.
Poteva scorrere l’elenco di tutte le personalità di rilievo che avessero, secondo il codice grillino, le virtù pubbliche necessarie a governare: l’onestà, naturalmente; nessun retroterra partitico; nessuna contaminazione con precedenti esperienze politiche; competenza sì, ma soprattutto stile di vita sobrio (leggi: retribuzioni assai contenute).
Virginia e Angelina
La signora Virginia Raggi non è l’onorevole Angelina da Pietralata (la memorabile Anna Magnani di un vecchio film di Luigi Zampa), non è la popolana indignata che guida una jacquerie dalle incontrollabili conseguenze. È una signora che qualche studio perlomeno di diritto lo ha fatto (non di storia, come si è visto, talché non può temere che questa le sia magistra), che si è dirozzata negli studi legali dell’avvocato Previti, che non piomba sul Campidoglio a sua insaputa e che ha alle spalle un movimento vasto e tumultuoso e una giovane e combattiva classe dirigente. Molto prima del voto del 19 giugno sapeva – lo sapevamo tutti – che sarebbe stata eletta. Come ha trascorso quei mesi? Ha studiato? Si è confrontata? Ha reclutato il meglio che la società civile poteva offrirle? È arrivata già preparata all’incoronazione?
Lunga e inutile gestazione
Mentre l’altra sindaca grillina di punta, Chiara Appendino, a Torino, era in grado, quattro giorni prima del ballottaggio (che non era affatto sicura di vincere), di presentare la sua squadra di assessori (e quella è stata), lei, la Raggi, ha atteso ben 18 giorni (il 7 luglio) per presentare la sua “squadra”. Dopo tanta gestazione, ci si aspetta un parto perfetto, comunque ineccepibile almeno sotto il profilo formale. E invece da allora è un susseguirsi di incidenti che ci fanno tristemente dire che non si discute oggi dei primi cento giorni di governo grillino di Roma, ma che si aspetta ancora che questa nuova amministrazione parta. Perché – anche se dicono che Roma ha tante urgenze ed emergenze – questa amministrazione non è ancora partita.
Ci sono uomini che nuovi non lo sono per nulla (l’alemanniano Marra) e che disturbano l’anima hebertista del movimento; altri (Carla Raineri) che, per l’autorità anticorruzione (tardivamente consultata) era stata nominata con procedura impropria; altri ancora sotto inchiesta (l’assessora Muraro). Per non parlare del pezzo forte, l’assessore al bilancio Minenna, amorosamente scelto e curato dalla Raggi, che se ne va sbattendo la porta. E come commenta questa uscita Virginia Raggi? “Sono i poteri forti che non ci vogliono”. I poteri forti? Ma conosce il senso delle parole la sindaca di Roma? Minenna e la Raineri, i suoi fiori all’occhiello, sono rappresentativi dei poteri forti?
“In queste ore ho appreso”
L’elettorato grillino potrà anche digerire la giaculatoria dei poteri forti e dell’accerchiamento cui la prima grande esperienza di governo grillino è sottoposta (accerchiamento reale, inutile nasconderselo: sia per la novità dell’esperimento sia perché è normale e fisiologico che agli unti del Signore e di Grillo si chieda qualcosa in più), ma i fatti e le parole sono innegabili. E resta, come un macigno – tragica testimonianza di insipienza – il motivo per il quale Virginia Raggi, ventiquattro per dopo averlo nominato assessore al bilancio, revoca l’incarico a Raffaele De Dominicis: «In queste ore ho appreso che l’ex magistrato e già procuratore generale della Corte dei Conti del Lazio in base ai requisiti previsti dal M5S non può più assumere l’incarico di assessore al Bilancio». In queste ore? Ma questo è il giardino d’infanzia. L’assessore più importante prima lo nomini e solo dopo gli fai l’esame del sangue? E cosa scopri? Che è indagato – da tempo – per abuso d’ufficio. Esattamente come l’assessora Paola Muraro. Solo che per la Muraro – indagata da quattro mesi – la Raggi prende tempo: “Devo vedere le carte”. Per De Dominicis no: per lui non si leggono le carte, basta essere indagati per non avere “i requisiti previsti dal M5S”.
Straordinaria prova di leggerezza da un lato e di doppiopesismo dall’altro.
La politica in rete
Sono eventi che suggeriscono alcune evidenze.
La prima è che, sarà forse diverso in molte cose, il M5S, ma non nell’organizzare e coltivare contese al proprio interno per la spartizione del potere. E sì, perché non è tutta colpa della Raggi se lo screening dei candidati è andato male, se regole e requisiti valgono secondo le circostanze, se l’essere indagati per alcuni è impeditivo e per altri meno.
La seconda è che una classe dirigente non si improvvisa. Che cosa aveva Virginia Raggi, se non la sua fresca banalità e una immagine di piacevole ma controllata femminilità, distante dalla grigia professionalità maschile degli altri tre consiglieri del movimento? Quali altri criteri aveva il web-elettorato grillino per scegliere il candidato se non qualche comparsata mediatica, i post, i twitter, facebook, insomma l’insieme degli strumenti che quella grande ludoteca che è la rete mette a disposizione dei comunicatori?
Così si conquista l’evidenza, non la competenza. Un po’ poco per raddrizzare la democrazia.
La terza è che una classe dirigente allevata nelle sgrammaticature della rete, fra facili insulti e fanciullaggini lessicali, che non fanno crescere se non l’emulazione del cachinno, la voluttuosa ricerca dell’ingiuria d’autore e la denigrazione sistematica, è più di altre facilmente vulnerabile dalle insidie delle complessa realtà amministrativa. Chiunque abbia voglia di avventurarsi nei forum, nei blog, nel vasto oceano della twitterologia ne troverà facile conferma. Rarissimi gli scambi ragionati e le analisi; normalissime la sentenziosità, l’irrisione, la volgarità. Con queste si fa facile opposizione, si fa politica alla maniera della onorevole Angelina. Non si governa.
La Bastiglia si allontana
Ma bisogna uscirne, perché Roma è messa assai male. Non certo per colpa dei grillini, sia chiaro, ma di chi li ha preceduti. E temo che la lezione ai grillini non sia ancora bastata. Il problema è riprendere contatto con la storia e misurarsi con il reale, con il possibile: un bagno di umiltà è necessario, dopo tanta boriosa autoglorificazione, escludendo la conflittualità interna propria della vecchia vituperata politica.
Invece si questiona su Luigi Di Maio caduto in disgrazia e sul suo amico-rivale Alessandro Di Battista. In vista di una improbabile presa della Bastiglia.
Di Maio è un gran visir recidivo, che occulta sistematicamente al sultano (Grillo) i guai del reame per non disturbarlo. Così fece in gennaio – non dimentichiamolo – quando tenne per sé la rivelazione che la sindaca di Quarto Rosa Capuozzo era indagata, salvo poi farla espellere dal partito. Così ha fatto ora, ammortizzando democristianamente la notizia che l’assessora Muraro è indagata. Forse sperava in uno sgonfiamento del caso. Gli è andata male e ora lo mettono provvisoriamente dietro la lavagna.
Il girondino Di Maio è uomo di governo, controllato e rassicurante (e distratto). In questa fase tumultuosa gli preferiscono il suo rovescio temperamentale: il rumoroso, agitato, perennemente ispirato Alessandro Di Battista, la cui fragilità lessicale è largamente compensata dall’irruenza oratoria (e anche fisica, quando occorre). C’è in lui una discreta dose di masaniellismo, e anche della ventosa fanfaronaggine del miles gloriosus plautino, Pirgopolinice. Ma ricorda soprattutto la furbesca demagogia di un semi-rivoluzionario dell’Ottocento, Auguste Ledru-Rollin, che quando vedeva passare una folla tumultuante, correva in strada gridando: «Devo seguirli perché sono la loro guida”. L’uomo giusto al posto giusto».
Testo: Piero Pantucci
Disegni: Portos
(settembre 2016)