Mes, Recovery fund, Sure: non illudiamoci i conti alla fine li dovremo pagare anche noi (non solo i nostri figli)
“Dal decreto - twittava il premier Giuseppe Conte il 5 aprile - arrivano 400 miliardi di liquidità per le imprese. con il CuraItalia ne avevamo liberati 350. Parliamo di 750 miliardi, quasi la metà del
“Dal decreto – twittava il premier Giuseppe Conte il 5 aprile – arrivano 400 miliardi di liquidità per le imprese. con il CuraItalia ne avevamo liberati 350. Parliamo di 750 miliardi, quasi la metà del nostro Pil”.
Sono cifre imponenti, confermate – nelle sedi politiche – anche nelle settimane successive. Anzi, ulteriormente dilatate, se è vero che non c’è ministero che non invochi tutele speciali per le categorie e le situazioni di propria pertinenza, come la grillina Laura Castelli, vice dell’Economia, che appena tre giorni fa ha previsto (non sappiamo se in accordo col titolare del dicastero, Gualtieri) un ulteriore aggravio di bilancio di 10 miliardi, a beneficio degli enti locali, del turismo, del commercio e dell’artigianato. Ma probabilmente ne occorreranno di più.
Una montagna di denaro
Questa voluminosa mole di danaro, quand’anche venisse ridimensionata (assai improbabile) o corretta in termini di prelievo di risorse, comporta in ogni caso uno spaventoso aumento del debito pubblico. A fine marzo risultava di 2.431 miliardi, in lieve, ma incoraggiante diminuzione. Ora è destinato a lievitare di centinaia di miliardi. Perché nessuna delle forme di intervento dello Stato a sostegno del disastrato assetto economico si finanzia gratuitamente. Quando va bene si tratta di debiti a interesse zero.
Il rapporto tra il debito pubblico e il Pil (cioè la relazione fra l’ammontare dei debiti accumulati e la ricchezza prodotta), che è indice sufficientemente oggettivo della tenuta economica e della solvibilità di un sistema, era già spaventosamente elevato prima della pandemia (135 %). Ora – la stima è dell’Unione europea – si arriverà al 159 %.
Il che, in condizioni normali, significa bancarotta. Ma la pandemia non ha colpito solo noi. Il tracollo economico non ha risparmiato nessuno.
Quindi l’Europa ha cambiato passo. O meglio: sta cambiando passo. Non è stato semplice, ma già aver ottenuto la sospensione del patto di stabilità (con vincoli che obbligano ogni anno i paesi più discoli ad acrobazie finanziarie per evitare procedure di infrazione) è una novità molto significativa.
Interventi a rilento
Torniamo ai 750 miliardi (o giù di lì) annunciati da Conte. Qui va subito detto che, se la percezione dei danni causati dal Coronavirus è stata sufficientemente tempestiva, l’adozione e l’utilizzo degli strumenti annunciati lo è stata molto meno. È inaccettabile che, ad oltre due mesi di distanza dal violento manifestarsi della pandemia e della conseguente immobilizzazione di larga parte dell’industria e di blocco del lavoro, esistano vasti settori, fra i destinatari degli interventi annunciati, che non abbiano ancora fruito di alcun beneficio.
È la burocrazia, si dice. Male. In tempi di emergenza, anche i brutti vizi vanno presi a calci. L’alibi non può reggere. Qui non ci addentriamo nel mare dei singoli provvedimenti che danno corpo ai decreti (variamente denominati: cura, salva, liquidità, rilancio…), che costituiscono l’insieme degli interventi: si va dall’emissione di titoli, alla garanzia statale sui prestiti bancari, dall’Irap agli affitti del suolo pubblico, dall’esonero temporaneo del pagamento delle tasse, dai debiti verso la Pubblica Amministrazione agli svariati bonus, da erogazioni a fondo perduto al sostegno alle famiglie…
Che siano sufficienti non lo sappiamo ancora, che debbano essere tempestivi è assolutamente fondamentale.
L’Europa non più arcigna
Ma la grossa novità provocata dalla pandemia è l’Europa: l’arcigna matrigna di una lunga narrazione vittimistica (profilo purtroppo in parte meritato) ha dovuto cambiare fisionomia. Autentica rifondazione o semplice maquillage? Presto lo vedremo.
Certo è che dopo un ottuso ritualismo iniziale (ad opera soprattutto dell’erede di Draghi al vertice della banca europea, la signora Lagarde), la comprensione da parte degli organismi continentali della gravità della situazione si è manifestata in una inedita (ancorché non del tutto definita) disponibilità a saltare vincoli e attenuare egoismi nazionali, con l’adozione di strumenti di grande portata finanziaria.
E, se è vero che il principale motore di questo cambio di rotta è stata una volta di più la signora Merkel, va riconosciuto al primo ministro italiano il merito di aver imposto come centrale l’impegno di tutta la comunità europea a forme di finanziamento del tutto inedite, come dimensioni e come caratteristiche.
Si chiama Recovery Fund (o Recovery Plan). Potrebbe anche avere un esito meno voluminoso di quello che Merkel e Macron hanno annunciato. Ma ci sarà e sarà un elemento risolutivo, a dispetto dei molti che fino a poche settimane fa dileggiavano Conte, giudicando il Recovery una illusione senza speranze.
L’impegno europeo
La voce più importante è il Recovery Fund. Nei piani dei suoi promotori consiste in 750 miliardi di euro, di cui due terzi (500) a fondo perduto; gli altri come prestiti a lunghissima scadenza. All’Italia, che più di ogni altro paese dell’Unione ha pagato un prezzo altissimo al Covid 19, andrebbe la parte più cospicua: 173 miliardi, quasi metà dei quali (82) a fondo perduto.
L’opposizione di Austria, Olanda, Svezia, Danimarca, Ungheria, i cosiddetti “Stati frugali” (e mai denominazione ci è apparsa più infelice) renderà complessa l’approvazione del piano. E’ una opposizione che si può legittimamente definire gretta ed egoistica, ma che purtroppo parte dalla considerazione dell’elevatissimo debito italiano e dall’incapacità dei nostri governi di avviare significative riforme strutturali.
La partita è aperta
Complessivamente – così ha detto Ursula Von der Leyen, presidente della commissione europea – l’Unione mobiliterà nei prossimi sette anni, più di 2.000 miliardi, oltre il doppio di un normale bilancio continentale.
Oltre al Recovery, le principali forme di intervento europeo sono:
il Sure, una sorta di cassa integrazione continentale, che renderà disponibili 25 miliardi(è un prestito, finanziato con l’emissione di titoli);
il Mes, il cosiddetto fondo salvastati, che fu varato dal governo Berlusconi: garantirebbe all’Italia un prestito (a interesse zero) di 37 miliardi finalizzati esclusivamente agli interventi in campo sanitario: non si capisce perché la Meloni e i leghisti, che facevano parte del governo Berlusconi (la Meloni era ministro) ora si oppongono.
L’insieme dei provvedimenti, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo, ha un elevatissimo costo. Costo che la lunghissima rateizzazione dei debiti e la cospicua presenza di interventi a fondo perduto, attenua di molto, ma non cancella.
L’Italia sarà un paese ancora più indebitato di prima. E i debiti vanno onorati. Che la maggior preoccupazione dell’opposizione sia quella di bandire una crociata contro la “patrimoniale” appare assai poco saggio.
E sì, in un paese inguaiato come il nostro, bisogna pur prendere coscienza del fatto che non tutto sarà a fondo perduto, non tutto andrà a scadenza nel 2080: un po’ di conti dovremo pagarli noi, secondo le nostre reali possibilità, secondo i nostri redditi (non quelli falcidiati dalla pandemia). Chiamatela patrimoniale o come volete, ma che gli italiani (tutti, non solo quelli direttamente colpito dal virus) debbano sopportare dei nuovi sacrifici non sembra evitabile. Il peggio sarebbe l’adozione della infame flat tax, la tassa piatta, che Salvini invoca da sempre: così, tanto per dimostrare ai cosiddetti paesi frugali che l’Italia gravata di debiti rinuncia, in piena pandemia, al gettito fiscale dei più abbienti. Geniale.
E geniale, e tempestiva, è anche la burbanza con la quale il neoliberismo ci richiama al dovere di combattere lo statalismo.
Ma quale statalismo?
Scrive il mai domo Angelo Panebianco sul “Corriere della sera”: “La nuova ondata statalista. Lo ‘spirito del tempo’ attualmente sembra sfavorevole al mercato, ma un ritorno all’intervento pubblico mette a rischio tutte le libertà”.
Insomma, il sistema fa acqua (perché il liberismo è capace di produrre grandi e diseguali ricchezze, ma non di rendere robuste le strutture sociali), la nave affonda e si chiede allo Stato di intervenire. E lo Stato interviene indebitandosi. Ma anche prendendo campo in settori dell’economia particolarmente disastrati e dove il privato ha fallito (Alitalia, Ilva…). Questo “statalismo” angoscia Panebianco.
Si può capire la fede di chi milita nella chiesa del libero mercato, ma sostenere che l’intervento pubblico metta “a rischio tutte le libertà” è realmente paradossale.