Mondiale di ciclismo 2014: elogio di un perdente
And I’m back in the rain And you are on dry land. (Bob Dylan - You’re a Big Girl Now)In Spagna, a Ponferrada, piove. Piove sull’asfalto del falsopiano di Confederacion, sugli ombrelli dei tifosi
And I’m back in the rain And you are on dry land.
(Bob Dylan – You’re a Big Girl Now)
In Spagna, a Ponferrada, piove. Piove sull’asfalto del falsopiano di Confederacion, sugli ombrelli dei tifosi e sulle schiene dei corridori. Piove anche sulla testa di Alessandro De Marchi, che a venticinque chilometri dal traguardo getta via la borraccia, lancia uno sguardo a sinistra, e si alza sui pedali.
Venticinque chilometri nel ciclismo moderno sono un’eternità, tanto più che il percorso del “Campionato Mondiale di Ciclismo 2014” non è adatto a fughe e colpi di mano, e gli addetti ai lavori pronosticano da mesi un arrivo in volata; i fatti, fino ad ora, stanno confermando le previsioni. Già, fino ad ora, perché De Marchi delle previsioni se ne frega e parte senza voltarsi. Solo tre corridori si lanciano al suo inseguimento e lo raggiungono: il francese Cyril Gautier, il danese Michael Valgren Andersen e il lituano Vasil Kiryenka, uno dei matti del ciclismo mondiale, che nel 2011 coronò un’incredibile cavalcata solitaria andando a vincere in cima al Sestriere la ventesima tappa del Giro d’Italia.
Kiryenka è un duro, uno che non ha paura di prendersi il vento in faccia, e le regole non scritte della bicicletta vorrebbero che gli uomini in fuga si dessero dei cambi regolari. Ma non è così, nessuno si schioda dalla ruota di De Marchi e lui – che da cento chilometri ha sulla faccia un tale ghigno che vien da pensare stia per stramazzare al suolo da un momento all’altro – non fa una piega e continua a pestare come un ossesso sui pedali, lanciato come un transatlantico nella pioggia battente.
Alle spalle dei quattro il gruppo esplode e si lancia all’inseguimento, ma non c’è organizzazione né accordo tra le nazioni interessate e così, anche solo per un attimo, si può credere che quei pazzi là davanti possano davvero farcela e che il dio del ciclismo abbia scelto proprio questo giorno per premiare tutti gli attaccanti senza speranza della storia.
È solo un secondo però, prima che Spagna e Australia comincino a tirare per le loro punte Valverde e Gerrans. Il vantaggio dei fuggitivi da cinquanta secondi si riduce a trenta, poi a venti, infine a dieci, quando mancano sette chilometri al traguardo. Il Rosso di Buja (che non è un vino, ma il soprannome del ciclista friulano) si gira per la prima volta, e vede il gruppo arrivare. Non ha ancora mollato quando, poche centinaia di metri dopo, il polacco Michal Kwiatkowski esce come una palla di cannone dal gruppo e lo riagguanta in un attimo. De Marchi cerca di seguirlo, raschia il fondo del serbatoio, ma di benzina non ce n’è più.
Sul traguardo, ai piedi del castello medievale di Ponferrada, Kwiatkowski piomba per primo; De Marchi quaranticinquesimo.
Mentre il polacco sale sul podio per ricevere la maglia iridata – stretto tra gli sconfitti Gerrans e Valverde – l’azzurro viene intervistato dalla Rai: distrutto, fradicio e sporco più della merda, si scusa con i compagni di squadra e si rammarica, perché ne aveva, ma non abbastanza. Si allontana dalle telecamere masticando bestemmie e imprecazioni a bassa voce, ancora in sella.
Alessandro De Marchi è arrivato con un minuto e cinque secondi di ritardo sul traguardo del Mondiale 2014; quarantacinquesimo, niente di speciale. Ma a noi non importa niente. Ci importa piuttosto che sia un Ettore in bicicletta: uno sconfitto, un eroe. Amiamo che corra completamente slegato da qualsiasi buonsenso tattico, da qualsiasi preconcetto maggioritario, con un cuore enorme e nell’indole animale l’attacco.
Lo adoriamo perché è l’uomo con più chilometri passati in fuga al Tour de France 2014, senza vincere nemmeno una tappa. Perché, parliamoci chiaro, alla fine nella vita non vince nessuno. Ma avere un cazzo di numero rosso sulle spalle perché sei stato il più combattivo è qualcosa di impagabile.
E più di tutto è bello sapere che anche sotto la pioggia, anche senza speranza, ci sarà sempre un Alessandro De Marchi che a troppi chilometri dal traguardo getterà via la borraccia, lancerà uno sguardo a sinistra con in faccia la smorfia del condannato a morte, e si alzerà sui pedali.