Centenario della Marcia su Roma: una mostra a Palazzo Moriggia ricostruisce le tappe della rapida ascesa del fascismo in Italia

A cent'anni dalla Marcia su Roma un'interessante mostra, allestita a Palazzo Moriggia presso la sede del Museo del Risorgimento, ricostruisce gli albori del fascismo e ripercorre gli eventi che portarono alla presa del potere da

«Alla fine, si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io».

Con queste drammatiche parole che suonano come una sentenza senza appello, si chiude “M il figlio del secolo”, il primo libro della trilogia su Mussolini e il fascismo di Antonio Scurati. Un romanzo documentario che ricostruisce mirabilmente gli anni dell’ascesa del fascismo: dall’immediato primo dopoguerra fino all’omicidio di Giacomo Matteotti. In mezzo, quella Marcia su Roma attorno alla quale, negli anni successivi alla presa del potere, venne costruita una versione celebrativa artefatta, ad uso della propaganda di regime.

E proprio alla “Marcia su Roma” (quest’anno ne ricorre il centenario) è dedicata la mostra, allestita a Palazzo Moriggia (dove ha sede il Museo del Risorgimento) e curata dalla Fondazione Anna Kuliscioff. Una mostra ricca di reperti storici (foto, prime pagine di giornali, cimeli dell’epoca) facenti parte delle Civiche Raccolte Storiche di Palazzo Moriggia, che aiutano il visitatore, grazie al loro potere suggestivo, a calarsi nel clima incandescente del periodo e a comprendere le ragioni della rapida ascesa del fascismo. Di fronte al documento che mostra l’elenco dei partecipanti al raduno fondativo dei fasci di combattimento, tenutosi a Milano, in piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919 si rimane infatti increduli.

I fondatori dei fasci italiani di combattimento.

Un elenco risicato, composto da soli 121 nomi, in cui spicca quello di Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo. Mussolini, relegato in posizioni subalterne, oscurato dalla figura di D’Annunzio, passa gran parte delle sue giornate nel “Covo”, la sede de Il Popolo D’Italia, il giornale fondato dopo l’espulsione subita dal Partito Socialista. Attorno al Covo, situato in via Paolo da Cannobbio, in una zona (il Bottonuto) sudicia e malfamata, gravita una compagine di reduci, fra cui molti “Arditi”, i gruppi di assalto addestrati nel combattimento corpo a corpo, che ebbero un ruolo decisivo nella controffensiva del Piave che portò alla vittoria contro l’esercito austroungarico e che ora, terminato il conflitto, dimenticati e osteggiati, si domandano con acredine e risentimento:” Per che cosa si è combattuto?”. Mussolini “fiuta” che quel malcontento, quella rabbia, quella attitudine alla violenza, può trasformarsi in uno strumento di lotta politica e forse anche in una possibilità di rivalsa personale verso la casa socialista che lo ha disconosciuto. Non a caso, la prima grande prova di quella violenza rivoluzionaria si scatena proprio contro la sede dell’Avanti che il 15 aprile 1919 viene assaltata e devastata.

La sede del Popolo d’Itala, il Covo delle squadre fasciste.

La storia, nel frattempo sembra, però, prendere altre direzioni. L’Europa, nel periodo compreso tra il 1919 e il 1920 vira a sinistra, trascinata dall’onda e dal mito nascente della Rivoluzione Bolscevica del 1917. In Italia si entra nel cosiddetto biennio rosso: un’ondata imponente di scioperi e l’occupazione di molte fabbriche da parte degli operai scuote e paralizza il paese. Nelle campagne le leghe socialiste, dopo anni di soprusi subiti, riescono a imporre le proprie condizioni agli agrari. All’interno del partito socialista, che guadagna scranni anche in parlamento, le posizioni massimaliste diventano maggioritarie a scapito di quelle moderate rappresentate da Filippo Turati. Ogni giorno sembra quello buono per la rivoluzione. Una rivoluzione molto gridata ma che non si concretizzerà mai.

Sono tempi in cui il vento può cambiare direzione rapidamente. La minaccia rossa fa ora paura a molti: agli agrari nelle campagne, agli industriali del nord, alla piccola borghesia delle città, che vedono un Italia sempre più in balia del disordine economico e sociale e il proprio status economico a rischio. Di fronte ad uno stato debole, remissivo e inconcludente, la violenza fascista è vista da molti, come un effetto collaterale accettabile pur di mettere fine al caos. In una serie di articoli del mese di Novembre 1920, il Corriere della Sera di Luigi Albertini giudica “Santa la violenta reazione antibolscevica”. E’ tempo per Mussolini di rientrare prepotentemente in gioco. Il biennio rosso cambia così colore e lascia il posto ad un biennio nero (1921/1922) nel corso del quale la furia fascista dilaga. Gli squadristi organizzati secondo criteri militari e spesso favoriti e protetti da prefetti, questori, agenti, carabinieri guardie regie e magistrati che simpatizzano con la causa fascista, bruciano case del popolo, sedi sindacali, sedi di giornali, picchiano, intimidiscono, spingendosi spesso fino all’omicidio barbaro degli odiati nemici socialisti. Dinnanzi alla teca che custodisce un manganello e un pugnale, la tipica dotazione degli squadristi si è attraversati da un brivido alla schiena.

Quando i ceti medi e la classe politica prendono coscienza della deriva violenta e autoritaria che sta prendendo la democrazia italiana è ormai tardi per tornare indietro. La macchina della violenza e della sopraffazione è ormai inarrestabile: sbaragliato il nemico socialista per Mussolini ora è tempo di lanciare l’assalto alle istituzioni democratiche. Il 3 agosto 1922, gli squadristi occupano Palazzo Marino. Dopo un mese di tentennamenti, il 28 agosto il Governo cede alla violenza fascista e scioglie l’amministrazione comunale di Angelo Filippetti. E proprio a Filippetti è dedicata l’interessante mostra “Un Sindaco fuori dal Comune” allestita presso la Casa della Memoria, da cui emerge il ritratto di un uomo poliedrico e per certi versi sorprendente. Medico ed esponente di primo piano del socialismo milanese di inizio Novecento, Filippetti fu anche un dotto esperantista, un viaggiatore instancabile e un appassionato fotografo.

I tempi sono ormai maturi per tentare la spallata decisiva allo stato liberale. Mussolini il 24 ottobre 1922 in piazza del Plebiscito a Napoli tuona: «O ci daranno il potere o lo prenderemo calando su Roma». La minaccia è un azzardo: sul campo l’organizzazione della marcia fa acqua da molte parti. Basterebbe poco allo Stato per fermare con la forza Mussolini e le sue legioni disordinate e scarsamente equipaggiate. L’intimidazione è però sufficiente a mettere in scacco ciò che rimane delle istituzioni democratiche. Il Re si rifiuta di firmare lo stato d’assedio e così i fascisti hanno gioco facile a riversarsi nelle strade di Roma. Mussolini arriva nella capitale a giochi fatti, viaggiando comodamente in treno, convocato dal re per il conferimento dell’incarico che lo porterà a formare il primo governo a guida fascista.  Il primo passo verso la dittatura è compiuto. Da quel momento l’unico ad opporsi con lucidità e determinazione in parlamento sarà Giacomo Matteotti. Purtroppo, per poco tempo. Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti verrà prelevato e brutalmente assassinato da una spedizione fascista.

L’assalto a Palazzo Marino.

La mostra riesce nell’intento di restituire al visitatore l’atmosfera dei tempi e il quadro complessivo degli eventi che portarono alla dittatura. Il puzzle che ne emerge assomiglia ad una tempesta perfetta. Una serie di concause (le conseguenze della guerra con il peso dei suoi morti e delle sofferenze materiali e psicologiche che ne seguirono, l’affacciarsi sulla scena della storia delle masse operaie e socialiste, la crisi dello stato liberale, la debolezza delle istituzioni democratiche, la tendenza degli italiani a salire sul carro del vincitore e ancora molte altre) sprigionarono e concentrarono i loro effetti in un breve lasso di tempo. Forze e spinte che, non trovando un punto di equilibrio, implosero, travolgendo le fragili e giovani strutture democratiche italiane. Dalla mostra si esce però anche con un monito importante: nel confronto democratico non si può e non si deve venire mai a compromessi con la violenza. Le parole di Liliana Segre, pronunciate durante il recente intervento al Senato in occasione dell’inaugurazione della nuova legislatura sono lì a ricordarcelo: «Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni».

      

Reporting specialist di una multinazionale di giorno, al calar delle prime ombre della sera si dedica alla sua vera passione ed indossati i panni di aspirante giornalista e scrittore si aggira per gli anfratti della Milano Sud in cerca di notizie e spunti per un nuovo racconto…..

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