Padroni a casa nostra? Ma vada via ai pé, pistola!
Da decenni noi autoctoni del Nord siamo tempestati da slogan come “Padroni a casa nostra” o “Roma ladrona” urlati da personaggi vestiti di verde con un elmo cornuto, che gonfiandosi il petto e facendo la
Da decenni noi autoctoni del Nord siamo tempestati da slogan come “Padroni a casa nostra” o “Roma ladrona” urlati da personaggi vestiti di verde con un elmo cornuto, che gonfiandosi il petto e facendo la voce grossa zittivano qualsiasi tentativo di ragionamento pacato.
A queste truppe cammellate si affiancavano personaggi più presentabili che, calcolatrici alla mano, ci spiegavamo il federalismo fiscale – perché alla fine sono sempre i danee che contano – e quanto noi lombardi ci avremmo guadagnato, fino a diventare in pochi anni un paradiso, una “Svizzera del sud” (perché è la patria di Guglielmo Tell il sogno del lombardo frustrato).
Nonostante una certa riluttanza e diffidenza, considerata anche la consolidata pochezza del governo centrale, cominciavamo a crederci. L’assunto finale su cui poggiavamo le nostre considerazioni era che “Tanto vale provarci, peggio che con Roma non potrà mai andare”.
Nel 2017 poi c’è stato il referendum per chiedere più autonomia per la Lombardia, vinto da coloro che la chiedevano: gli stessi al governo al Pirellone oggi.
Le trattative avviate con Roma, per fortuna sono state sospese.
La pandemia di Covid-19 ha svelato l’inganno.
Il mito padano del ghe pensi mi in questi mesi è andato letteralmente a rotoli, mostrando che l’eccellenza e la laboriosità lombarda non possono essere certo rappresentate dal centrodestra a trazione leghista in salsa padana. Cioè da questi quater balabiott.
In questi mesi di pandemia abbiamo assistito a un continuo scaricabarile, non solo verso Roma e le opposizioni politiche, ma anche nei confronti del personale sanitario tutto, dei medici di base, delle Rsa, dei sindacati, della stampa, financo delle stesse Ats, organi della regione i cui vertici sono nomina politica.
Mai un’assunzione di responsabilità, anche minima o parziale. Solo tronfi auto elogi: l’ordine di scuderia è sempre dire “abbiamo fatto tutto bene”. E se c’era un provvedimento discutibile, ci si trincerava dietro le “leggi nazionali” o le indicazioni ministeriali sbagliate.
Un teatrino che è andato in scena anche ieri, come riporta oggi il Corriere della Sera, ma con un differenza: lo scaricabarile non ha funzionato.
Protagonista ancora una volta l’assessore Giulio Gallera, chiamato in Procura a Bergamo come “persona informata sui fatti” in merito alle indagini per epidemia colposa in corso, in merito alla mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano, probabilmente l’area più martoriata dal coronavirus del pianeta.
Interrogato dai magistrati l’assessore ha dichiarato: «Noi aspettavamo Roma, fino all’inizio di marzo avevamo sempre proceduto d’accordo con il governo su quel tipo di provvedimenti». Quindi aspettavano la capitale, convinti di doverlo fare, nonostante, per stessa affermazione dell’assessore, “gli indici di contagio erano altissimi”, già a partire dal 23 febbraio. Anche se, come ha ammesso candidamente l’assessore, tempo dopo ha scoperto che anche la Regione avrebbe potuto procedere di sua iniziativa alla chiusura del territorio.
Chissà dove sta la verità, se nella colossale ignoranza delle proprie prerogative o nella pavidità nell’assumersi responsabilità di fronte decisioni difficili.
Di certo, per quanto ci riguarda, se sentiremo ancora urlare da questi personaggi “Padroni a casa nostra”, la risposta sarà un educato ma deciso: Ma vada via ai pé, pistola!