I peccati originali della Sanità lombarda. Le scelte della Regione che hanno pesato sul contenimento della pandemia

I morti, 15.519, la metà di tutta Italia avendo meno di un sesto di abitanti, + 186% decessi nel marzo 2020 rispetto alla media dello stesso periodo dei 5 anni precedenti (dati Istat), 18,4% il

I morti, 15.519, la metà di tutta Italia avendo meno di un sesto di abitanti, + 186% decessi nel marzo 2020 rispetto alla media dello stesso periodo dei 5 anni precedenti (dati Istat), 18,4% il tasso di letalità del virus, tra i più alti al mondo. Sono i numeri, aggiornati al 17 maggio, che impietosamente delineano i contorni dell’impatto del Coronavirus in Lombardia e che fanno della nostra regione un caso di studio e di approfondimenti sanitari, oltre che giudiziari e politici.

Non si stratta di fare polemiche o comportarsi da “sciacalli”, ma di capire cosa è successo in questi quasi tre mesi, per individuare errori e responsabilità, fare giustizia e prepararsi per affrontare pandemie future o il temuto ritorno di Covid.

Difficile fare esame approfondito di quanto successo in Lombardia, quando nei tribunali della Repubblica si ammassano faldoni. Troppo confuso il quadro e ancora sconosciuto – e probabilmente lo sarà per sempre – in che misura l’epidemia ha iniziato a diffondersi nella nostra regione, prima della scoperta del paziente 1, a Codogno, il 20 febbraio.

È pressoché certo che il virus circolasse già a dicembre, forse addirittura in autunno, visti anche gli stretti rapporti commerciali e turistici con la Cina. La densità degli abitanti e la grande mobilità che contraddistingue la nostra regione ha poi, molto probabilmente, favorito il contagio.

Ma può essere solo questo il motivo del disastro avvenuto nei mesi successivi? Al di là dell’alta contagiosità del virus, della iniziale sottovalutazione generale del pericolo, ci sono stati errori e scelte sbagliate, che possiamo definire “tipicamente lombarde”?

La riforma Maroni

Il primo “peccato originale” è la riforma dei servizi sanitari fatta dalla Giunta Maroni nel 2015. Tra le novità introdotte vi furono la creazione delle Ats/Asst e l’abolizione delle Asl, caso unico un Italia, con conseguente accorpamento sotto un’unica direzione dei rami territoriale e ospedaliero della sanità. La riforma ha anche riorganizzato i Distretti Sociosanitari – deputati alle cure primarie – aggregandoli in mega distretti con abitanti in alcuni casi fino 5 volte superiori ai distretti originari, ma senza adeguare le risorse.

La riforma ha anche rivisto la distribuzione dei Poliambulatori pubblici, spesso accorpando e lasciando scoperti interi territori, dando campo libero alle strutture sanitarie private. Come è successo nella nostra zona con il poliambulatorio di via Ripamonti, chiuso nonostante le proteste. Anche il Fondo sociale regionale, che si occupa di sostegno sanitario ad anziani disabili e famiglie, è stato dimezzato con il dirottamento sui voucher ad personam di risorse sottratte alla rete di servizi, e l’Assistenza Domiciliare è diventata, in percentuale, tra le più basse in Italia per persone raggiunte.

Scelte che spiegano, ha affermato il consigliere regionale Carlo Borghetti, esperto di sanità pubblica: «perché il sistema ci ha messo due mesi per organizzarsi sul territorio e ancora adesso stenta: non riesce a fare le telefonate per la messa in quarantena dei positivi; i Dipartimenti di Prevenzione, sono rimasti sguarniti; i Servizi per la sicurezza negli ambienti di lavoro faticano a controllare le attività aperte; i Medici di Famiglia non sono stati protetti, coordinati e supportati, e la sorveglianza attiva degli assistiti non fa ancora parte del sistema; tutto il sistema sociosanitario, non solo le Rsa, non è adeguatamente sostenuto; le Unità Speciali per l’assistenza al domicilio sono arrivate tardi e sono ancora troppo poche… C’è davvero tanto da rivedere, se si vuole sinceramente migliorare il servizio socio-sanitario lombardo».

La riforma Maroni, nata come “sperimentale”, doveva essere sottoposta a verifica intermedia dopo 3 anni. Nessuno ne conosce gli esiti, né se c’è stata. Ora la verifica definitiva della riforma dovrebbe avvenire entro il 2020.

Piano Socio-sanitario
e Piano Pandemico non aggiornati

Mentre scriviamo il Piano Socio-sanitario di Regione è scaduto da 6 anni, il mentre Piano Pandemico regionale è fermo al 2010. 
Il primo, strumento per l’intervento territoriale risale addirittura a prima della riforma Maroni «Per cinque anni la Giunta regionale ha proceduto senza linee guida, in un quadro normativo che era quello della precedente legge regionale. In questi giorni è iniziata la discussione in Consiglio della proposta del Piano Socio-sanitario 2019-2023.
L’approveremo presumibilmente entro l’estate. La Regione ne è rimasta sprovvista per 6 anni. Un ritardo che spiega molte cose», ha concluso Borghetti.

Il Piano Pandemico, come si diceva, è invece fermo al 2010. La vicenda qui assume i contorni dell’incredibile. Con una delibera, la Giunta Formigoni approvò una verifica fatta da esperti che si espresse in modo molto severo sul Piano pandemico messo in campo in quegli anni per fronteggiare l’influenza Suina. L’audit evidenziava una serie di criticità, a cui la Regione doveva porre rimedio. Scorrendo il documento allegato alla delibera è impressionate come 10 anni fa fu evidenziato proprio tutto quello che, sotto i colpi di una pandemia ben più aggressiva, non ha funzionato in questi mesi.

Solo a titolo di esempio – ma i rilievi dei tecnici spaziano su più campi – l’audit sollecitava la Regione a creare un sistema di rilevazione accurato degli accessi ai pronto soccorso, di ricoveri, di assenze dal lavoro e della mortalità su tutto il territorio, anche con campioni di popolazione, in modo da intervenire in tempo in caso di epidemia. Aggiungeva poi la necessità di avviare un incremento dell’assistenza domiciliare e di definire un accordo quadro con i gestori delle Rsa per un aumento dell’assistenza medica e infermieristica. Infine gli esperti individuavano nelle Asl il soggetto deputato, tra le altre cose, all’approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione di mascherine, camici, guanti... Ma le Asl, come detto, a seguito della riforma del 2015, sono sparite e le Ast non si sono fatte carico di questo compito.

Unità di crisi inefficace

Come è emerso dalle indagini della Procura, Regione Lombardia sapeva del rischio epidemia sin dal 22 gennaio. Quel giorno il ministero della Sanità diramò una circolare a tutte le regioni che informava di questo rischio e le invitava ad organizzarsi. Tanto è vero che l’assessore al Welfare Giulio Gallera convocò il 23 gennaio una riunione urgente, si suppone per dare seguito alle indicazioni ministeriali e predisporre un piano antipandemia per la Lombardia. In quei giorni Gallera disse a questo proposito: «Abbiamo nelle scorse ore emanato alcune indicazioni procedurali importanti per i medici di base e per gli specialisti ospedalieri, in costante raccordo con il ministero della Salute».

Quali provvedimenti siano stati presi dall’Unità di crisi appositamente creata è ora al vaglio dei magistrati che indagano sulle morti nelle Rsa. Di certo però, il 20 febbraio, data del primo caso Covid in Lombardia, il sistema sanitario non era preparato a fare fronte a contagio.

Sono passati molti giorni, in alcuni casi anche più di una settimana, prima che gli ospedali lombardi si attrezzassero con presidi sanitari specifici, spazi destinati ai malati Covid e triage differenziati nei Pronto Soccorso. Al punto che in più di un caso gli ospedali stessi sono diventati focolai di contagio.

I tempi di reazione per sostenere e indirizzare le strutture sanitarie territoriali sono stati addirittura peggiori. È passato oltre un mese prima che i medici di base e i pediatri ricevessero indicazioni, mascherine, guanti e camici. A Milano ancora oggi le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) per curare a casa i pazienti Covid sono poche. Fino al 17 aprile almeno non esisteva un sistema pratico e veloce con cui i medici di base potessero comunicare alle Ats i malati e il loro stato di salute.

Drammatica la situazione delle Rsa e Rsd, chiuse in ritardo, oggetto di delibere e provvedimenti discubili, con il personale che per settimane ha ricevuto con il contagocce mascherine, camici e tamponi, ed è stato letteralmente abbandonato a se stesso, numericamente insufficiente a fronte di un lavoro raddoppiato, che ha portato a un numero di morti impressionante.

Poi è arrivata la pandemia
e tutto è diventato emergenza

Dopo il 20 febbraio la diffusione dell’epidemia ha reso tutto più difficile e confuso. Il cambio di strategie e la mancanza costante di mascherine, tamponi e test sierologici sono diventati motivo di angoscia e di contagio per i lombardi.

Con uno sforzo gigantesco ospedali e Regione hanno portato le unità di terapia intensiva da 859 (nel 2019) a oltre 1.600, ma sul territorio sono ancora adesso migliaia le persone che hanno avuto chiari sintomi Covid e non sanno se sono state malate né se sono guarite. Una raccolta fondi straordinaria di 21 milioni di euro è stata destinata alla costruzione di un ospedale in fiera che verrà smantellato perché inutile e che gli esperti hanno sin da subito un errore.

Sui medici di base e le Rsa se ne abbiamo già parlato diffusamente in altri articoli. Mentre scriviamo sono in corso indagini della magistratura, ci sono esposti e denunce, avviate raccolte firme per chiedere le dimissioni dell’assessore al Welfare Giulio Gallera e sono state istituite commissioni di inchiesta.

Intanto la Lombardia, da sola, conta la metà dei contagi e dei morti dell’intero Paese. Nonostante questo i vertici della Regione sono convinti di aver fatto bene, senza errori. Sarà interessante il giudizio che gli storici daranno che tra qualche anno a quello che stiamo passando, come interessanti saranno i verdetti giudiziari e politico che saranno emessi sin dai prossimi mesi. Per ora, però, i lombardi sono costretti a vivere (o morire), dentro la cronaca.

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