Più che gli occhi “cadono” le braccia
Il referendum e le elezioni regionali hanno inevitabilmente messo la sordina al “caso” romano di studentesse in minigonna ed occhi degli insegnanti (maschi) che “cadono” sulle loro fattezze. Ma credo che sia utile riparlarne, magari
Il referendum e le elezioni regionali hanno inevitabilmente messo la sordina al “caso” romano di studentesse in minigonna ed occhi degli insegnanti (maschi) che “cadono” sulle loro fattezze. Ma credo che sia utile riparlarne, magari a mente un po’ più serena e non sotto l’impulso della cronaca.
La mia opinione è che, da qualunque parte la si guardi, la vicenda metta in luce una serie di vuoti, quando non offensivi, stereotipi. Che racconti, nel peggior modo possibile, ciò che dovrebbe essere ovvio; che si avviti in una ipocrita “solidarietà” senza autorevolezza.
Andiamo per ordine: un abbigliamento adeguato al contesto (o “dress code”, come orribilmente si chiama oggi) dovrebbe essere naturalmente scontato in moltissime situazioni. A scuola, come in ospedale, come in tribunale, come in un ufficio o in una banca, e come in tantissimi altri luoghi. Ovviamente per maschi e femmine. Per cui, tornando da dove eravamo partiti, non si va a scuola in ciabatte da mare o con i pantaloni abbassati a metà mutande (come andava di moda tra i ragazzi qualche anni fa) o con una gonna che le mutande le fa vedere dall’altra parte. Punto.
E – una volta tanto – non me la sento proprio di solidarizzare con gli adolescenti e la loro ridicola invocazione alla “libertà di espressione” attraverso il vestiario. Come se fosse una sorta di diritto naturale.
Ognuno resti libero di esprimersi attraverso il modo di vestirsi – ci mancherebbe – ma ci sono altre 20 ore al giorno, fuori scuola o fuori ufficio, per farlo. Vale per i ragazzi e vale per gli adulti, ovviamente.
Ma la cosa peggiore di tutta la vicenda – quella che dimostra plasticamente l’inadeguatezza di molti educatori – sono le motivazioni addotte dall’insegnante per chiedere alle ragazze di vestirsi in modo consono al luogo. Un triste mix tra sessismo (questa volta alla rovescia) e scarso rispetto verso i colleghi maschi (bollati come guardoni dall’occhio pendulo); tra paura (gravissima in un insegnante) di essere fermo e autorevole nelle legittime (se e quando sono legittime) richieste agli studenti, e il tentativo (patetico) di strizzare l’occhio alle alunne (fossimo tra noi, figuriamoci, ma ci sono gli insegnanti maschi voyeur).
Che mi significa, gentile vicepreside, che in una scuola solo femminile con insegnanti femmine e rigorosamente eterosessuali o maschi provatamente asceti e totalmente disinteressati alle fattezze femminili, ci si può andare vestite da spiaggia, perché ciò non suscita lascivie e desideri sessuali?
Il rispetto per il luogo in cui si è, gentile vicepreside, non ha niente a che fare col sesso e, se riteniamo che debba esserci, deve esserci a prescindere da occhi e sguardi. E questo tipo di rispetto – se è giusto richiederlo – lo si pretende e impone, non lo si contratta ammiccando.
Che messaggio diamo, alle ragazze e ai ragazzi, dicendo “non mettetevi la gonna corta perché il prof maschi vi guardano tra le gambe”? Non facciamo altro che alimentare i più vieti stereotipi – maschili e femminili – che la scuola dovrebbe, invece, cercare di combattere. E così facendo abdichiamo anche ad un’altra funzione importantissima che la scuola dovrebbe avere, oltre che a insegnare italiano e matematica: far comprendere ai giovani che in una società civile e democratica, dove la mia libertà termina prima che sia lesa la tua, esistono anche dei “dress code” che vanno rispettati per principio e non per evitare che “cadano gli occhi”.