Il prerequisito dell’onestà e le contraddizioni del Movimento 5 Stelle

Questa strana primavera elettorale qualche sorpresa potrebbe riservarla. Il Partito democratico, tramortito da una raffica di inchieste e di disavventure giudiziarie, sembrava avviato a una consistente sconfitta, con la perdita di molti importanti capoluoghi. La concomitanza

Questa strana primavera elettorale qualche sorpresa potrebbe riservarla. Il Partito democratico, tramortito da una raffica di inchieste e di disavventure giudiziarie, sembrava avviato a una consistente sconfitta, con la perdita di molti importanti capoluoghi.

La concomitanza di queste “disavventure” e la loro stagionalità, forse in altritempi avrebbero suscitato almeno il sospetto di “giustizia a orologeria” (per i più smemorati: è la formuletta canonica con la quale si commentavano tutti i guai giudiziari di Berlusconi). Ma è bene essere chiari: il travaglio del Pd non è tanto figlio di accanimento delle toghe, quanto della mutazione del partito, che era in atto prima dell’avvento di Renzi e che Renzi ha bruscamente accelerato. Oggi quello che solo i nostalgici della guerra fredda considerano l’erede del Partito comunista, ha una notevole carica innovativa, un leader ciarliero ma dinamico, ma anche una incerta fisionomia ideale (è dura combinare la tutela del lavoro con la religione del libero mercato) e una struttura organizzativa così lacunosa che persino in una delle piazze principali (Milano) non si è in grado di proporre una candidatura che sia inattaccabile sotto il profilo formale (solo su quello formale, si badi, ma di cavilli si può anche morire).

Il problema è serio: non è ammissibile che il lavoro svolto dalla Giunta Pisapia (di cui la coalizione guidata da Sala è la naturale erede) venga vanificato da smagliature organizzative. Auguriamoci che non avvenga: Palazzo Marino e il Pirellone (arresti di Mantovani e Rizzi) hanno dato in questi anni immagini eticamente molto differenti.

Ora, le prospettive del Pd sono forse meno cupe, non perché il partito nel frattempo si sia redento, ma perché la questione morale – che è questione essenziale – sta mostrando una complessità che l’antipolitica, principale alimento dei partiti populisti, non basta a spiegare. In generale si tende a negare che il vento dell’antipolitica soffi nelle vele dei grillini. Ma io non sono d’accordo. L’antipolitica non è tanto il rifiuto in toto della politica, ma il suo ridursi a un “tutti a casa”, a una voglia di palingenesi di cui non si ravvisano i contorni, al rogo di tutte le sigle e delle figure consolidate a vantaggio di chiunque dica ‘io non c’ero, io non costo, io sono antropologicamente diverso’.

Di questo sobbollimento di insofferenza, i 5 Stelle sono stati sino ad oggi i quasi esclusivi beneficiari. Ma anche per loro adesso è arrivato il banco di prova. E stanno scivolando. Bastino pochi dati. Governano non più di una quindicina di comuni in tutta Italia, ma hanno i sindaci delle due maggiori città governate – Parma e Livorno – indagati per reati amministrativi. A Gela, a Comacchio e ora anche a Parma, i loro sindaci sono stati sospesi o cacciati dal partito, con prassi a dir poco sbrigative, senza dibattito, spesso, come nel caso del sindaco di Parma Pizzarotti, con anonime email. Forse Casaleggio una grossolanità come questa non l’avrebbe compiuta. Forse. Ma il movimento nasce da una centrale informatica. E lì si è fermato. E lì si consuma ogni decisione.

Virginia Raggi – che tra pochi giorni, salvo imprevisti, diventerà sindaco della capitale – commenta le disavventure giudiziarie dei suoi quasi colleghi Nogarin e Pizzarotti, spiegandoci che non si possono usare gli avvisi di garanzia come manganelli. Affermazione che rivela una insperata dose di buon senso. Ma un po’ tardivo e fuori registro. Ancora pochi giorni fa, il suo collega Di Battista agitava in una trasmissione televisiva l’immagine di una enorme piovra (il Pd) che depredava e saccheggiava tutta l’Italia. I tentacoli di questa piovra erano decine di dirigenti e amministratori del Pd, indifferenziatamente indicati come reprobi, anche se alcuni di loro erano già stati assolti e, accanto ai collusi con mafia e camorra (che ci sono), figuravano molti altri indagati per reati amministrativi di lieve entità, quali il classico “abuso d’ufficio”, che è quasi il prodotto inevitabile del conflitto fra le esigenze della governabilità e le pastoie della burocrazia e della farraginosità della legislazione.

Rimaniamo a Parma e Livorno. La differenza fra Nogarin (Livorno) e Pizzarotti (Parma) è che il secondo ha dato prova di una certa capacità amministrativa, mentre il primo è solo un impasto di presunzione e incompetenza. Resta in piedi con una maggioranza in dissolvimento e cadrà subito dopo il voto amministrativo. Pizzarotti era in dissenso col suo partito da molto tempo, da quando cioè aveva chiaramente manifestato un grado di “adattabilità” ambientale, incompatibile col catechismo rigorista di Beppe Grillo.

L’affermazione della Raggi sull’uso degli avvisi di garanzia come manganelli è persino banale, e temo che presto i romani impareranno a loro spese che per amministrare un grande comune non basta avere la fedina penale candida (oltre che un volto giovane e accattivante). La Raggi è la tipica espressione di questa generazione grillina che, a parte la giovane età e la freschezza del neofita, appare spesso confusa e supponente, non di rado vaniloquente.

L’onestà è la grande carta ideale sulla quale i grillini hanno costruito, sin qui, le loro fortune elettorali. E onesti lo sono, anche Nogarin e Pizzarotti, lo scommetto. Ma sul piano pratico dimostrano la stessa vulnerabilità degli altri, perché non sono antropologicamente diversi. Sono solo nuovi. L’onestà è un prerequisito: è fondamentale ma è solo un prerequisito. Dopo il prerequisito ci vogliono i requisiti, che possiamo riassumere nel trinomio intelligenza-idee-competenza.  La legalità non è un programma politico, ma solo il perimetro entro il quale qualunque programma si deve attuare. Stabilire che l’onestà è prerogativa esclusiva del proprio partito equivale a dichiarare una irreale diversità antropologica. Ammenoché le linee guide di questo partito siano diametralmente opposte a quelle di tutti gli altri. E così non è. Ma i programmi non sono neutri. Non è la stessa cosa essere pro o contro il ponte sullo Stretto, né promuovere una politica fiscale basata su una forte progressività o volere invece la tassa piatta (la stessa percentuale per tutti i redditi). Si può scegliere chi vuole il ponte sullo Stretto e da lui esigere la stessa onestà che si chiede a chi in alternativa promette altre opere di pubblica utilità. Ma la discriminante sta proprio nella scelta a monte: ponte o non ponte, tassa piatta o fiscalità progressiva, sanità pubblica o sanità privata.

Se il politico che ho votato bara o trucca non lo posso sapere a priori. Se i partiti recuperassero il senso delle grandi appartenenze ideali, anziché limitarsi ad esibire gli artifici del maquillage giovanilistico, ne trarrebbe profitto la serietà della politica.

E anche le molte energie presenti in quel grande contenitore che è il Movimento 5 Stelle, potrebbero uscire dalla stagione delle vivaci improvvisazioni.

Piero Pantucci

Illustrazione: Portos

(Maggio 2016)

Giornalista dello scorso millennio, appassionato di politica, cronaca locale e libri, rincorre l’attualità nella titanica impresa di darle un senso e farla conoscere, convinto che senza informazione non c’è democrazia, consapevole che, comunque, il senso alla vita sta quasi tutto nella continua rincorsa. Nonostante questo è il direttore “responsabile”.

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