Referendum, i no che diventano sì e i sì che diventano no

Ti ammiro, amico lettore, che domenica 20settembre (o il giorno dopo) andrai alle urne per approvare o disapprovare la riduzione del numero dei parlamentari, contemplata da una legge che il parlamento italiano ha approvato in

Ti ammiro, amico lettore, che domenica 20settembre (o il giorno dopo) andrai alle urne per approvare o disapprovare la riduzione del numero dei parlamentari, contemplata da una legge che il parlamento italiano ha approvato in via definitiva nell’ottobre dello scorso anno. Ti ammiro perché forse, o probabilmente, hai le idee più chiare del legislatore. Il quale legislatore, lo scorso anno, ha dato il via libera, a larga maggioranza, alla drastica riduzione del numero dei parlamentari: i deputati scendono da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200.

Se i partiti restassero fedeli al voto di allora e se i rispettivi elettorati ne condividessero l’orientamento, nessun dubbio che il voto referendario confermerà il voto delle due Camere. E che vinca il sì è in effetti molto probabile: i sondaggi, fino a che è stato possibile effettuarli, vedevano largamente maggioritario il sì. Poi qualcosa è cambiato e sta cambiando, non al punto, probabilmente, di rovesciare quell’esito, ma certo di avvicinare sensibilmente le percentuali e soprattutto di dimostrare quanto poco sul serio venga vissuto dalla gran parte dei partiti, il merito specifico del referendum.

Un costituzionalista come Michele Ainis giustifica il suo sì al taglio del parlamento con l’apprezzamento del metodo: si tratta di un referendum su un quesito preciso, limitato, circoscritto e dunque di non dubbia interpretazione, e senza la catena di connessioni e subordinate che in altre tornate referendarie rendevano difficile la scelta. È vero: il quesito è chiaro e semplice. Ma è sufficiente questo a giustificarne l’approvazione?

Altri (come Gianfranco Pasquino) argomentano il no perché la ridefinizione numerica delle Camere non è accompagnata e sorretta da una revisione complessiva del quadro istituzionale, apartire dai regolamenti parlamentari, dal ruolo e dai compiti delle commissioni, dalla ridefinizione dei collegi elettorali. Tutto vero. Ed è tutta materia che dovrebbe impegnare seriamente i partiti, non solo ad argomentare oggi le ragioni del sì e del no, ma anche ad attrezzarsi per rendere possibile nell’immediato il completamento di una riforma che altrimenti, come si sostiene da più parti, si riduce solo ad una spedizione punitiva contro la “casta”.

È una vittoria dell’antipolitica, checché ne dicano i grillini. È la rancorosità, a lungo coltivata, nei confronti del “magna magna”, al quale, secondo una visione semplice e semplicistica, si riduce ormai l’arte della politica. Non è così, a nostro avviso. E comunque non è risparmiando poche decine di milioni di costi parlamentari che si risana la politica. Ma questa è la bandiera che brandiscono i cinque stelle, che sognano un altro affaccio dal balcone per urlare “abbiamo abolito la casta”, dopo il memorabile “abbiamo abolito la povertà”, che festeggiò il varo del reddito di cittadinanza giusto due anni fa.

Dove vogliono arrivare i grillini? A sostituire la democrazia parlamentare con la piattaforma Rousseau? Prima di assecondarli in questo percorso di scardinamento istituzionale, bisognerebbe riflettere attentamente sulle conseguenze politiche che il ridimensionamento comporta. Ma non è di questo che i partiti si stanno occupando.

L’attenzione di segreterie e apparati è volta unicamente al voto regionale che, nelle stesse giornate del 20 e 21, interesserà Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania, Puglia. Qui si sta giocando la vera partita. Con le consuete cadenze da stadio che Salvini compendia pronosticando un “7 a 0” per la sua squadra. All’uomo non ha mai fatto difetto il senso della misura.

Il referendum?

Il Partito Democratico è passato, in Parlamento, dal no al taglio dei parlamentari a un sì condizionato a una riforma elettorale, che non c’è ancora, sulla base di patto di coalizione che ha permesso la nascita del governo Conte Bis. Un capovolgimento di posizione rispetto al merito del referendum che registra però molti espliciti dissensi, da Prodi a Cuperlo.

Per qualche buona ragione? Se accontentare il bizzoso alleato di governo è una buona ragione, diciamo che non ne vediamo altre. E finge, Zingaretti, di prendere sul serio l’impegno grillino a dar corso, subito dopo, ad un’ampia riforma istituzionale e a una nuova legge elettorale. Naturalmente non se ne farà nulla.

La Lega, che aveva votato con i grillini la legge antiparlamentari non ha ufficialmente preso posizione, ma nella sostanza ha rovesciato la posizione dello scorso anno. Si incarica Giorgetti di spiegare perché: “Tagliare del 40% i parlamentari darebbe un potere senza limite alle segreterie di partito, limitando di parecchio la volontà popolare”. E che, l’anno scorso non se ne era accorto? E, ancora più apertamente, aggiunge che votare sì “sarebbe un favore ad un governo in difficoltà”. Alla faccia del quesito referendario chiaro e inequivoco.

Forza Italia prosegue nella politica del “non so, non ho visto, se c’ero dormivo”. L’anno scorso non partecipò al voto parlamentare; quest’anno, almeno sinora, non ha espresso un orientamento chiaro, anche se sembra prevalere la contrarietà.

La Meloni formalmente non si rimangia il voto del 2019, ma nel suo partito l’umore che serpeggia è analogo a quello dei leghisti.

Insomma, i no diventano sì, i sì diventano no, i forse rimangono forse.

Probabilmente è eccessivo banalizzare il valore del referendum riducendolo a semplice risparmio di qualche stipendio (come argomentano alcuni oppositori) o vedere nel voto contrario solo una supponente insofferenza verso il populismo (come sottolineano alcuni sostenitori) ma che la partita sia giocata soltanto da una élite di opinionisti, politologi e costituzionalisti, che sia disertata dalle strutture partitiche e che venga vissuta in termini più emotivi che razionali dall’elettorato la dice lunga sulla reale debolezza del nostro sistema, da troppi anni avvelenato da eccessi di verbosità, di facile teatralità, di linguaggio ridondante.

Votare no, come il buon senso suggerisce, non impedirà la vittoria del sì. E la vittoria del sì resterà un fatto di mera contabilità. I problemi di funzionamento del nostro sistema istituzionale forse non ne risulteranno aggravati, ma certamente non ne trarranno beneficio.

Recensioni
NESSUN COMMENTO

SCRIVI UN COMMENTO