Seguire l’esempio di Roosvelt
Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, abitualmente molto misurato, nonché distantissimo dal reboantismo della politica teatrocratica, ha sobriamente affermato che la crisi che stiamo attraversando è addirittura peggio di quella del ‘29. Di quella crisi in
Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, abitualmente molto misurato, nonché distantissimo dal reboantismo della politica teatrocratica, ha sobriamente affermato che la crisi che stiamo attraversando è addirittura peggio di quella del ‘29. Di quella crisi in Italia nessuno, o quasi, ha memoria diretta. E per giunta, l’Italia autarchica ebbe meno a soffrirne delle democrazie liberali aperte, ma ciò che ne sappiamo da quelli che ne hanno scritto è che quella crisi ebbe effetti devastanti, e prolungati nel tempo. Oggi, un’Italia fortunatamente meno autarchica sta pagando un prezzo altissimo, per la combinazione fra la sua assenza di politica industriale, il suo smisurato indebitamento e la subordinazione o il trascinamento rispetto alle logiche del capitalismo finanziario, dominus incontrastato del mercato mondiale.
Se Padoan ha ragione, cosa dobbiamo aspettarci per l’immediato futuro? Peggio di quello che è già successo e che sta succedendo? Due dati per tutti: disoccupazione al 13 % e disoccupazione giovanile addirittura oltre il 44.
E sono dati che tutti noi percepiamo come enormememnte più gravi della caduta del Pil e della deflazione, anche se non è arduo coglierne il nesso.
Da mesi (anche prima di Renzi) l’Italia invoca un cambio di direzione che ci sottragga alla logica punitiva cui siamo sottoposti (insieme con altri paesi europei “reprobi”) da quando il governo Berlusconi accettò (o subì o condivise) il sostanziale commissariamento della nostra economia da parte della Ue germanocentrica.
Sottrarsi a quelle regole è molto difficile, se si vuole restare nell’Europa (ed è bene restarci, anche se a condizioni differenti), ma la recente levata di scudi della Francia, che non è un parente povero, ma il partner principale della Germania, può aiutarci seriamente a rompere l’assedio della occhiuta regia dei mercanti del denaro.
In Europa ci considerano scolaretti indisciplinati e un po’ somari. Tutti i torti non li hanno: i nostri trascorsi (assai poco attenti agli equilibri di bilancio e disinvoltamente proclivi all’indebitamento) non suggeriscono clemenza nei nostri confronti. Ma se la crisi globale mette in ginocchio l’economia di paesi fondamentali (la Francia e l’Italia, tanto per restare in Europa), non solo è auspicabile, ma è doveroso cercare soluzioni assai più radicali e serie dei soliti “compitini” che la signora Angela Merkel assegna.
Perché questo è il momento non solo di ripianare i debiti, ma di introdurre nel governo dell’economia logiche di rinnovamento politico e sociale che al primato del profitto sostituiscano l’interesse della collettività, di tutta la collettività. Quando Roosevelt prese in mano le sorti dell’America negli anni Trenta, mandò a quel paese banchieri, tecnocrati e sacerdoti dell’economia liberistica. E fece bene. E gli Stati Uniti furono risanati.
In Italia il compito del governo Renzi è proprio questo. Essere protagonista di un risanamento e di un rilancio non sacrificale della nostra economia. E il Partito democratico non può – dopo lo straripante voto delle europee – che essere al centro di questo processo. Il compito è assai difficile, perché l’Europa è assai fredda verso il talento comunicativo del nostro premier. Ci chiede altro. E per questa sfida Renzi ha bisogno di tutte le risorse disponibili.
È significato simbolico della grande bagarre sull’articolo 18 credo sia chiaro a tutti. Renzi, che è ciarliero e affabulatore ma tutt’altro che sciocco, sa perfettamente che al capitale finanziario e imprenditoriale (italiano e straniero) dell’articolo 18 non importa assolutamente nulla: sono ben altri gli interventi richiesti per ridare fiducia alle imprese (a cominciare dalla sburocratizzazione e da una stringente guerra alla corruzione). Lo sa, ma ha scelto il feticcio dell’articolo 18 convinto che in Europa ci si contenti di un trofeo così poco significativo.
È altro quello che dobbiamo fare. Ma è uno sforzo che postula una visione alternativa rispetto alla grettezza bancocentrica dominante. Tutte le forze del rinnovamento debbono essere consapevoli che è la regia politica che deve cambiare, che è necessario aprire un orizzonte assai diverso.
Il Partito democratico ha una grossissima responsabilità. Trovo del tutto normale, anzi fisiologico, che il dibattito sull’articolo 18 sia molto acceso. E per fortuna non c’è uniformità di vedute (solo un giornalismo prono e disciplinato come quello del Giornale può parlare della direzione del Pd come della “morte in diretta del Pd”), per fortuna non ci si limita alle stucchevoli esecrazioni del passato e alla propagandistica contrapposizione anagrafica fra una vecchia guardia da rottamare e una generazione fresca e portatrice di “magnifiche sorti e progressive”.
Ma sono rimasto sinceramente sconcertato nell’ascoltare la risposta data da una delle più aggraziate voci della corte renziana, il ministro Maria Elena Boschi, quando è stata sollecitata a dare una definizione della sinistra. «Mi considero di sinistra – ha precisato la Boschi. E ha soggiunto – I valori della sinistra di oggi sono quelli del cambiamento. Essere di sinistra significa non tanto essere custodi del passato, ma anticipare e costruire il futuro, quindi essere riformisti».
Tutto qui. La frequentazione lessicale (almeno lessicale) con sostantivi come giustizia, uguaglianza, socialità, potrebbe aiutarci a capire che non tutte le direzioni di marcia coincidono. Signora Boschi, lei crede che Giorgia Meloni o Matteo Salvini, tanto per fare due nomi non a caso, non siano egualmente favorevoli ai valori del cambiamento? Ma quale cambiamento? In quale direzione?
L’assoluta indeterminatezza preoccupa. La consapevolezza della gravità delle scelte da compiere e della qualità diversa che si richiede al cambiamento, soprattutto in una fase storica in cui l’Italia si propone come soggetto non marginale di una nuova politica europea, è il requisito primo che chiediamo a chi ci governa.
Piero Pantucci