Il terremoto del 4 dicembre
Il voto del 4 dicembre non è stato un terremoto circoscritto territorialmente e limitato nel tempo. È stato una deflagrazione che non ha risparmiato nessuno. Anche quelli che sarebbero dovuti essere i maggiori beneficiari del
Il voto del 4 dicembre non è stato un terremoto circoscritto territorialmente e limitato nel tempo. È stato una deflagrazione che non ha risparmiato nessuno. Anche quelli che sarebbero dovuti essere i maggiori beneficiari del tonfo di Matteo Renzi, non se la passano benissimo. Berlusconi è ulteriormente calato nei sondaggi, e alla sua destra scricchiola Salvini e galleggia benino solo la Meloni. Perfino i grillini annaspano alla ricerca di un consenso che, quando arriva, appare il gesto di disperazione dell’elettore che, disorientato, si gioca la fiducia con la stessa razionalità con la quale al botteghino del lotto il giocatore, dopo una serie di puntate sfortunate, si affida alla “smorfia” per azzeccare i numeri giusti. Ma allora, a che è servito il voto del 4 dicembre?
Non era abbastanza evidente che bocciare il referendum – malposto e malgestito da Renzi – avrebbe avuto effetti di portata superiore alla pur rilevante caduta della riforma istituzionale? Certo che era evidente, almeno per chi tenta di valutare il dopo di ogni scelta politica e non solo gli effetti che produce nell’immediato. E non so quanta parte di quella sinistra che ha votato No abbia saputo sottrarsi all’intenso ma effimero piacere di vedere Renzi ruzzolare. Il ruzzolone ha ovviamente prodotto i traumi interni e gli psicodrammi che non si sono limitati alla caduta del governo, ma che hanno investito l’intero Partito democratico. Era ora per la verità che in questo partito – che continua ad essere impropriamente considerato la naturale evoluzione del Pci – si discutesse di politica. Perché è di politica in senso proprio che si sta discutendo, anche se i commentatori più stucchevolmente conformisti – e sono tanti – forniscono la comoda e popolare rappresentazione di una dirigenza interessata solo a lotte di potere e distante dai “problemi della gente”. In realtà, anche chi, nella diaspora in atto dal Pd, è spinto da motivi di rancore personale, si muove all’interno di logiche culturalmente distanti dalla rotta sin qui tenuta da Matteo Renzi.
Non so che futuro abbiano i Democratici e Progressisti di Speranza e Rossi (e Bersani e D’Alema), o la Sinistra Italiana di Fratoianni e Vendola o il Campo Progressista di Giuliano Pisapia. Ma nel presente i sondaggi assegnano a questi agglomerati un potenziale elettorato non inferiore al 10%: poco per ipotecare il futuro, più che sufficiente per azzoppare il governo Gentiloni, che ha raccolto e sta quietamente e signorilmente gestendo i cascami del renzismo di governo. Paradossalmente, la sinistra, complessivamente intesa – e Dio sa quanto sia problematico oggi individuare una base comune che giustifichi l’appartenenza allo stesso ordito progressista dei suoi molteplici spezzoni – sembra avere più consenso di quando era quasi tutta riassunta dal piglio rottamatore di Renzi. Si ricomincia a sentir parlare di giustizia e di uguaglianza: termini e concetti trascurati dal lessico renziano. E questo dimostrerebbe che l’avversione alla politica di Matteo Renzi non è tinta solo di antipatie e di insofferenza per l’arroganza, ma affonda le radici nella fisiologica riluttanza ad accettare come inevitabile che le crisi economiche che ciclicamente il capitalismo produce possano essere risolte solo attingendo le ricette dallo stesso antichissimo abbecedario del capitalismo. Che sia in crisi il blairismo di Renzi non è sorprendente.
Non so quanti hanno seriamente preso in considerazione che il progetto di Renzi era assai meno personalistico sul piano gestionale e improvvisato sul terreno culturale di quanto una semplicista caratterizzazione ci ha rappresentato. Abbiamo parlato di blairismo, perché è quello – al di là delle dichiarazioni ufficiali – il modello al quale Renzi guarda, assai più che al collaudato schema del socialdemocratismo scandinavo. Il laburismo di Tony Blair in tempi di vacche magre – crisi economica senza fine – rischia di associare i danni della mancata crescita al dilatarsi delle disuguaglianze. E su questo terreno il blairismo scivola. Ma è un progetto reale e guardiamoci bene dal considerarlo esaurito o da espungerlo dall’orizzonte della sinistra. Nella storia della sinistra italiana – lo hanno ricordato in tanti – le scissioni non hanno mai portato bene. Neanche quando, come avvenne nel 1964, dal partito socialista uscì la robusta minoranza di sinistra di Vecchietti e Valori, contrari all’autonomismo nenniano e all’esperienza del primo centrosinistra. Oggi, alla sinistra di Renzi e del Pd c’è un arcipelago di idee, di suggestioni, di aspirazioni. Non c’è ancora un movimento consistente. Renzi ha fretta di regolare i conti. Prima si faranno le primarie e prima verrà confermato (magari con qualche contusione) il leader del partito: a quel punto Renzi sarà più che mai in campo, unico portatore di un progetto politico che in una consultazione elettorale fondata – come oggi appare – sul modello proporzionale potrebbe ancora trovare un ruolo decisivo. In questo momento il più serio nemico di Renzi è Renzi stesso: il Renzi animoso e revanscista, il Renzi che non capisce l’opportunità di ripiegare ma insiste nel rilancio. Il grillismo non è affatto la soluzione dei problemi italiani: ma potrebbe essere la inevitabile stagione delle espiazioni, se sarà la premessa al ritorno della politica come terreno del confronto e delle mediazioni, l’esatto contrario della visione totalizzante e punitiva di tutti i populismi.
Piero Pantucci
(Marzo 2017)