Tour d’autunno, ricordo di Gianni Mura

Il Tour de France è la più antica e famosa corsa ciclistica del mondo, nato in una notte parigina del 1903 (allora si correva per tredici o quattordici ore di fila con tappe giornaliere che

Il Tour de France è la più antica e famosa corsa ciclistica del mondo, nato in una notte parigina del 1903 (allora si correva per tredici o quattordici ore di fila con tappe giornaliere che sfioravano i 500 chilometri). Quest’anno è terminato il 20 settembre alla vigilia dell’autunno. Un paio di mesi dopo quella che è stata la sua conclusione abituale per più di cent’anni.

È uno, non il peggiore, dei tanti mutamenti cui ci ha costretto l’irruzione nelle nostre vite del Covid 19 che oltre a sconvolgere l’esistenza di molti ha terremotato i calendari di tutte le manifestazioni sportive. Non l’hanno scampata neppure le Olimpiadi che tremila anni fa scandivano il tempo e oggi più semplicemente i quadrienni. Annullate come solo nelle stagioni terribili delle guerre mondiali.

Il Tour è sopravvissuto, seppure a fatica. Perché il Tour non è, come potrebbe parere ai distratti, una corsa ciclistica. Il Tour è la storia di Francia che si rinnova ogni anno. Il Tour è la festa dell’estate. Si corre nel mese di luglio quando le giornate sembrano non finire mai. Il Tour attraversa un paese simile eppure tanto diverso dal nostro, un paese che ha saputo mantenere la sua realtà contadina, fatto ancora di grandi spazi vuoti come a difendersi da una urbanizzazione selvaggia. Il Tour passa attraverso villaggi che paiono fermi nel tempo, fatti di piazze ornate di platani, dove rotolano fra le aiuole le bocce di un gioco antico. Il Tour corre dalla Provenza dolce alle asprezze dell’Alvernia, raduna folle immense sulle nostre Alpi e sui Pirenei spagnoli, rinnova una grandeur passata e meno tronfia prima di tuffarsi sui Campi Elisi per l’apoteosi finale.

Il 14 luglio che è festa nazionale il Tour celebra un giorno noto al mondo intero e sul palco d’onore accanto al vincitore della tappa più ambita appare il presidente dei francesi come a sigillare l’antico patto col popolo nato al canto della marsigliese. Il Tour è la grande festa pagana dell’estate, quell’estate che non vorremmo ci lasciasse mai.

A noi il il Tour lo ha raccontato un grande giornalista, anche se sarebbe tempo di liberarlo da una definizione cosi angusta. Diremmo allora che ce lo ha raccontato un grande scrittore. Si chiamava Gianni Mura. E  nelle strade di Francia era stato catapultato poco più che ragazzo all’inizio della carriera. Da lì non non se ne era più perso uno, un mese all’anno dedicato al Tour  per quasi mezzo secolo. E alla fine, come spesso ripeteva lui, fanno ben più di tre anni di vita su quelle strade a inseguire i campioni di tre generazioni, Certo si era perso i giorni di gloriosi di Coppi e Bartali (coi francesi che si incazzano, come ci ricordava Paolo Conte) ma aveva fatto in tempo a respirare gli anni dell’epopea di Anquetil e del suo sfortunato rivale Poulidor, che sulle strade del Tour rinnovavano l’eterno duello fra Achille ed Ettore.

I francesi tutti a parteggiare per l’eroe sempre sconfitto, il suo buffo nomignolo, Poupou, assurto a simbolo indimenticato. Aveva visto nascere la stella di Gimondi adottato dai cugini d’oltralpe che lo chiamavano sgimondì  e l’ascesa inarrestabile di Eddy Merckx, il più grande di tutti, aveva vissuto il tempo del basco Indurain dalla faccia triste, accarezzato i voli pirateschi di Pantani e le stagioni maledette di Lance Armstrong, venuto dall’America a dominare la corsa per sette lunghi anni prima di veder sfumare quei successi a tavolino sotto l’onta del grande imbroglio.

Il tramonto dei ciclisti di casa fino al massimo oltraggio, il Tour divenuto terra di conquista dei nemici inglesi. Fino ai giorni nostri, dall’ultima impresa italica di Nibali alla zingarata finale, il 2019 che aveva visto trionfare un colombiano, Bernal, quasi a significare che davvero il mondo si era ormai fatto tutt’uno.

Mura ha cantato il Tour come un grande poema e nessuno riuscirà più a raccontarlo come lui (già mi vergogno a buttar giù queste righe). Mura ci immergeva nel caldo torrido del luglio francese fra le e volate assassine giocate sul filo dei settanta all’ora, ci portava con lui nelle fughe in montagna ad avvicinare il cielo. Ma ci  raccontava  soprattutto l’anima di quel paese così vicino a noi, di un paese che l’anima voleva conservarla.

Gianni Mura ci ha lasciato a marzo, silenziosamente, quando eravamo tutti chiusi in casa. Sarebbe stato forse il suo ultimo Tour, ma forse non se la sentiva di viverlo così, un Tour dimezzato senza le folle assiepate sulla strada ad aspettare  l’arrivo dei corridori rotti dalla fatica. Non sarebbe stato il Tour dove a fine corsa si tirava sera nelle grandi tavolate all’aperto. E poi quando finalmente il sole di luglio si era  addormentato c’era ancora la notte per storie eterne e sempre nuove. Non l’avrebbe amato un Tour che arrivava Parigi sul far dell’autunno, la maglia gialla color del sole del vincitore che sbiadiva un poco fra le foglie che cominciavano a morire. Avrebbe  scelto di saltare un giro per tornare l’anno seguente quando il Tour sarebbe tornato ad essere il suo Tour, quando avrebbe potuto riconoscerne profumi e colori. Quando l’estate sarebbe tornata ad essere estate.

P.s. Gianni Mura ha dovuto spesso ricordare gli amici che nel tempo ci hanno lasciato. Soleva accompagnarli con pochi versi di Jacques Prevert. Non c’è modo migliore che ripeterli per salutarlo.

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pour ceux que l’on aimè

Bibliotecario approdato finalmente alla pensione cerco di coltivare e condividere con maldestri tentativi di scrittura le mie mille passioni. Dalla letteratura allo sport, dalla storia alla musica, tutto con la stessa onnivora curiosità inversamente proporzionale alla competenza. Al primo posto l'amore per il cinema, nato a sei anni dalla folgorazione in una sala buia e mai più abbandonato.

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